Ed ecco che il direttore d’orchestra Riccardo Muti ci regala nuovamente la solita tiritera della grande musica italiana a cui non pensa più nessuno. Stavolta se l’è presa con i Maneskin e con i trapper: non è possibile che i giornali parlino solo di loro mentre non si fa niente per la vera cultura italiana. Duepalle. Questa concezione che alla cultura bisogna obbligare (lui ha detto, ovviamente, che bisogna educare i bambini all’opera da piccoli) ce l’abbiamo soltanto noi italiani che non ci siamo mai veramente liberati da un certa, come dire, balillità del pensiero. Perché, a quanto mi risulta, nel mondo, la musica classica e l’opera vanno benissimo. Certo, non ci sono solo i vecchi tromboni, salgono sui palchi direttori giovanissimi, la musica contemporanea e le opere contemporanee vengono messe in scena con afflusso di pubblico giovane ed entusiasmo e gioia e anche bellezza, non sempre la solita tiritera che qui musica colta vuol dire ancora quella buttana della Boheme o quella buttana di madama Buttarfly. Quando un’opera sugli influencer? Il Teatro Massimo di Palermo o di Catania vogliono commissionarmela? Quando un’opera sulla cocaina e il jet set? Quando un’opera sulla politica? Io il libretto ve lo scrivo in quarantotto ore. Vi conviene?
Ma certo che va male la cultura della musica classica in Italia, i teatri sono un covo di posti e prebende da sottogoverno, personcine senza carattere che fanno sempre le conferenze stampa con gli assessori di turno o i presidenti di turno seduti accanto. La musica classica in Italia è politica: non bravura o mercato o capacità manageriali: emana un fortissimo odore di cavoli.
Perché in Germania, in Giappone, in America, i teatri operistici e sinfonici sono pieni? Forse perché sono privati? Forse perché non stanno lì da mane a sera ad elemosinare ai politici?
Poi si lamenta, sempre il Muti, che i cantanti oramai vanno a fare le «marchette in Cina». E perché le fanno in Cina? E perché in Cina sarebbero marchette? Cioè persino in Cina, e dico in Cina, sono più libertari. Potere politico e obbligo scolastico: sarebbe un incubo, non ve ne rendete conto?
Ma siamo così abituati a questa mentalità che a Palermo la settimana scorsa è successo quello che è successo. A me Renato Schifani sembra anche una brava persona, sul suo operato politico non posso esprimermi perché per quanto riguarda le mani sulla cultura destra e sinistra sono uguali. Però, di fronte a un evento lirico riguardante un miliardario giapponese si è messo a dire: «Il teatro, ci rompono il teatro». Ora, a parte il fatto che un teatro non si rompe così facilmente, a parte il fatto che cose del genere (soprapalchi sopra le sedie per fare cene spettacolo li montano ovunque da anni) le cose sono due: 1) davvero era preoccupato per un «gioiello siciliano», e però non si è tanto credibili quando di «gioielli siciliani» allo sfacelo ce ne sono una quantità esorbitante e tutto sto caos per un teatro non sembra giustificato, 2) oppure, come hanno scritto su Buttanissima.it era semplicemente incavolato nero perché non era stato invitato.
Quello che so è che né i Maneskin né i trapper stanno lì a parlare col potere politico, so che vendono i biglietti e che il mercato musicale pop e rock si rinnova continuamente. E che eventi come quello del giapponese dovrebbero essere sentiti come una manna dal cielo. W il libero mercato! Anche e soprattutto nelle Arti.
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