Mozart al cinema? Era un’idea di Wagner

Nel nome di Mozart, torniamo a celebrare l’amore coniugale fra l’arte del XX secolo, il cinema e l’opera lirica: quella che il Richard Wagner del Gesamtkunstwerk, “opera d’arte totale”, aborrendo il termine “melodramma” proprio di una disamata tradizione italiana (eccezione massima, la “Norma” belliniana da lui diretta a Riga), definiva Musikdrama. Peraltro in molti, e autorevoli, hanno visto giusto nel film il più vero compimento della prospettiva wagneriana: per la capacità stessa di comprendere nel proprio sincretistico linguaggio immagine e musica, scena e parola, modalità epica e struttura dialogica. E taluno lo vide con acutezza tutta in negativo, spregiando senza rimorsi il melodramma e ritenendolo colpevole di lesa maestà culturale, giacché accomunava in un malsano gusto interclassista il “netturbino” e il “professore universitario”: è parola di Tomasi di Lampedusa. Fresco esito del  rinnovato rito coniugale è “The Magic Flute” di Kenneth Branagh, attore-regista di varie fortune drammaturgiche, che dopo il grande Olivier osò darci in cinema succulenti bigné shakespeariani quali l’”Enrico V” e l’integralissimo “Amleto”, cimentandosi altresì col comico solarnotturno di “Molto rumore per nulla” (ci sia concesso, tuttavia, di esibire il nostro cuore sanguinante per l’inopinata riambientazione in Toscana, con sacrificio di una Sicilia così acconcia a quel forbito conversar baroccheggiante). Il nuovo “Flauto magico” doppia a trent’anni di distanza quello in lingua svedese del Maestro dei Maestri, l’Ingmar Bergman di recente solitaria fuga nella gloria senza tempo. Il povero Emanuel Schikaneder, fantasioso librettista, si starà rivoltando nella tomba per tanto oltraggio alla sopraffina, popolare e colta insieme, ‘cantata’ e ‘parlata’ viennese: e ora ci si mette col suo inglese d’alta tradizione quello stravagante ragazzaccio di Branagh…

Come che sia, mentre l’opera lirica mantiene la sua vitalità interlinguistica, il cinema si conferma poliedrico ‘contenitore’ retoricamente vocato alla comunicazione musicale. Se è abbastanza noto per la musica classico-sinfonica (giusto un pizzico di esempi preclari: il Mozart del bressoniano “Un condannato a morte è fuggito”; il Bach del pasoliniano “Accattone”; il Mahler del viscontiano “Morte a Venezia”; il Rossini del kubrickiano “Arancia meccanica”), in campo operistico il dato è familiare solo agli esperti e agli appassionati. Come l’Opera risulta, orazianamente, tota nostra, così il film d’opera vide a lungo primeggiare gli italiani: da quello splendido artigiano che fu Carmine Gallone al Franco Zeffirelli regista verdiano con “La traviata” e “Otello”, ma che forse ci diede il meglio di sé con un’opulenta e barocca “Cavalleria rusticana”, diretta in alta routine da George Prêtre ma forte, su naturali scenografie vizzinesi, del trittico Teresa Stratas-Plácido Domingo-Renato Bruson.

Concediamoci un riferimento rapsodico a due testi-chiave, “Don Giovanni” e “Carmen”, accostabili nel comune spirito di libertà, se non di libertinismo. Nel 1976 Joseph Losey, autore di capolavori come “Il servo” e “L’incidente”, licenziava un “Don Giovanni” supercantato (e recitato in presa diretta) da Ruggero Raimondi nel personaggio eponimo, José Van Dam quale stilizzato Leporello, Edda Moser come piagatissima donn’Anna, Kiri Te Kanawa nelle vesti di una scatenata donn’Elvira, Teresa Berganza deliziosa Zerlina (e ci fermiano). L’orchestra dell’Opéra di Parigi era diretta da un solido ed equilibrato Lorin Maazel. I puristi melomani scalpitarono per presunti delitti di lesa musicalteatralità, ma dopo l’ennesima visione osiamo dire che tràttasi di un esito assoluto, anche grazie a quelle libertà giustappunto cinematografiche ma di controllata spazialità scenotecnica che Losey si concede: dalla superarchitettonica ambientazione nel Veneto palladiano alle alchimie ipercinetiche di un vorticoso gioco a inseguire.

Ritorniamo all’Italia con l’ispanica e andalusa eppure francesissima Carmen. Dipintore di costumi mediterranei (da “Salvatore Giuliano” a “Le mani sulla città” a “Il momento della verità”), Francesco Rosi ci dona un film d’opera che più film non si può: l’Iberia regionalistica vi campeggia da cima a fondo, perché già dall’ouverture il narratore sceglie di var ‘vedere’ e ‘sentire’ quella plaza de toros destinata a tornare nella sequenza conclusiva, allorché don José verrà a implorare e infine ad accoltellare una Carmen gelosa della propria liberté al punto da preferire una morte già predestinata nell’oscuro rituale della carte impitoyable a una insoffribile prevaricazione maschile. Ancora con Maazel e Domingo, soccorso da una fotografia luminosamente perforante di Pasqualino De Santis (quello di “Morte a Venezia”), Rosi rinverdisce il mito di Carmen come opera universale e super partes.  

Ecco perché l’aristocratico e comunista Luchino Visconti ne fece carne e sangue in quel “Rocco e i suoi fratelli” che  ricompone epicamente Verga e Testori, Dostoevskij e Mann, alla presenza sonora del gran patròn felliniano Nino Rota. Cangiando Carmen in  Nadia (Annie Girardot), José in Simone (Renato Salvadori), e riservando al liricissimo e bellissimo Rocco (Alain Delon) la gioia straziata di vincere al pugilato proprio mentre il fratello sopprime l’amante che lo rinnega, il Gran Lombardo ci regalava, dopo le liturgie di “Senso” fra Verdi e Bruckner, la più grande “opera senza canto”. E riecco il Gesamtkunstwerk, in questa melopatetica ritualità popolare officiata da quel Visconti che fu artefice massimo del mito performativo di Maria Callas, e che ci dava nei suoi anni tardi un personalissimo “Ludwig” costruito su quel sovrano di Baviera che anteponeva Wagner alla politica, allo stato, alla guerra. Lui beato, nella sua dolce follia.

Fernando Gioviale

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