«Questo è un processo teorematico. La Procura generale ha portato elementi funzionali a sostenere un teorema precostituito». L’ultimo atto dell’Appello a carico dell’ex generale del Ros dei carabinieri Mario Mori e dell’ex colonnello, Mauro Obinu, è dedicato all’arringa dei legali degli imputati. Ai due ex alti ufficiali è contestato di aver fatto saltare l’arresto dell’allora latitante Bernardo Provenzano, nell’ottobre del 1995 a Mezzojuso. Un’accusa che in primo grado – da cui entrambi sono usciti assolti – veniva formulata nel reato di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra, ma che adesso il procuratore generale ha ridotto a favoreggiamento. La decisione è stata annunciata nella precedente udienza, in cui Luigi Patronaggio ha discusso la sua requisitoria.
La difesa oggi si è concentrata sul principale testimone dell’accusa, Michele Riccio, ex ufficiale dei carabinieri che per primo ha accusato Mori e Obinu di aver volutamente fatto fuggire Provenzano. «Non c’è mai stato nessun fantomatico accordo tra i carabinieri del Ros e Cosa nostra – ha affermato l’avvocato Basilio Milio – Cosa hanno detto in più, rispetto al giudizio di primo grado, i testimoni chiave dell’accusa Massimo Ciancimino e il colonello Michele Riccio? Quale prova o elemento aggiuntivo? Nessuno. Anzi, solo Riccio resta in piedi dopo la scelta di buttare a mare il testimone Ciancimino». Secondo il legale «Riccio ha continuato a sostenere le tesi del primo grado in modo confuso, senza aggiungere niente: il movente delle sue accuse contro i suoi superiori, Mori e Obinu – ha aggiunto Milio – è l’essere colpevoli secondo lui di non averlo adeguatamente protetto dopo i fatti in cui è rimasto coinvolto a Genova (Riccio è stato condannato per reati di droga, ndr)».
Riccio ha raccontato che nel 1995, il confidente Luigi Ilardo, poi ucciso nel maggio 1996 (e sulla cui morte è in corso il processo a Catania, ndr), avrebbe indicato agli inquirenti del Ros la possibilità di fare arrestare Provenzano. Ma il suo superiore di allora, cioè Mori, non avrebbe dato seguito all’indicazione della. Mori si è sempre difeso sostenendo che lo stesso «procuratore Giuseppe Pignatone ha dichiarato nel processo che Riccio non gli parlò mai di contrasti sorti con la dirigenza del Ros o che emergessero problemi nelle operazioni volte alla cattura del Provenzano». L’avvocato Milio ha sottolineato, poi, che «nella vicenda Riccio-Ilardo, Mori e Obinu non firmarono nessun atto di polizia giudiziaria, l’unico atto è del rapporto Grande oriente». Un’informativa giudiziaria stilata da Riccio dopo la morte di Ilardo, che contiene le relazioni di servizio nelle quali erano appuntate le confidenze della fonte.
Nell’immediatezza della morte di Ilardo, Riccio, sostiene ancora l’avvocato, «accusò Mori e Obinu, cioè i suoi superiori di allora, dicendo loro “lo avete ucciso voi“, un classico caso di lavarsi le proprie responsabilità morali». Ma, continua il legale, «Riccio non disse nulla di queste accuse né al procuratore Ardita, che lo ha sentito pochi giorni dopo la morte di Ilardo, e neppure al Procuratore di Palermo Caselli, di cui si fidava ciecamente – dice ancora Milio – Non lo disse a nessuno fino al 2001. Il procuratore generale sostiene che non lo disse perché era in uno stato di isolamento, e si decise di parlare solo a quell’ora».
Nella requisitoria, il procuratore Patronaggio ha passato in rassegna gli episodi controversi in cui Mori è stato protagonista: la mancata perquisizione del covo di Totò Riina, gli arresti sfumati di Nitto Santapaola e Bernardo Provenzano. E ha definito l’ex generale «un soggetto dalla doppia personalità e dalla natura anfibia».
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