Miti e riti tra Pasqua e i Vespri, parola di Basile «La rivoluzione a Pasquetta? Una fesseria…»

«Il 30 marzo del 1282, il lunedì dell’Angelo, i libri di storia narrano la famosa rivolta in Sicilia contro gli Angioini, i Vespri siciliani. Ma voi li vedete i palermitani fare una rivoluzione il giorno di Pasquetta? Con la pancia piena e ubriachi? Era un martedì e, pure sui Vespri, abbiamo raccontato un’altra minchiata…» Comincia così, con un aneddoto che racchiude tutta l’essenza sicula sulla Pasqua, la lunga chiacchierata con lo storico e giornalista palermitano Gaetano Basile. Un racconto interminabile e affascinante, ricco di dettagli e condito con l’immancabile ironia che, come un marchio di fabbrica, lo contraddistingue da sempre. Da storico e studioso del folklore siciliano, Basile parte da lontano, dalle origini della festa, svelando la chiave di lettura delle tradizioni pasquali nell’Isola. «La festa nasce ufficialmente nel IV secolo – afferma – 400 anni dopo la morte di Cristo. Però in Sicilia queste celebrazioni esistevano già nel mondo arcaico. In concomitanza con l’arrivo della primavera la natura risorgeva dopo la morte dell’inverno». 

Ecco rivelato il nesso tra il rito pagano e quello cristiano. «Per comprendere la dimensione culinaria della festa – prosegue – dobbiamo ricordare che Pasqua arriva dopo la quaresima, un lungo periodo di penitenze e digiuno. Finalmente, in questa settimana, si realizza la rappresentazione della passione e morte di Gesù Cristo». Ma come viene vissuta oggi la settimana santa? «C’è una filastrocca – cita a memoria – che lo spiega benissimo: Lunniri pi tutta la simana, lu martiri accumensanu i lutti, lu merculedi si fa la quaresima. giovedì si firriano li sipulcri, lu venneri è di ligno la campana, lu sabatu Maria ni chiama a tutti e duminica gesuzzu in cielu s’innacchiana (lunedì vale per tutta la settimana, il martedì si comincia a portare il lutto, il mercoledì si fa la quaresima, giovedì si girano i sepolcri, venerdì è di legno la campana, il sabato Madonna ci chiama a tutti quanti e domenica Gesù risorge). Il venerdì santo è forse il giorno più particolare: la campana è di legno perché le campane non possono essere suonate e si usa la trocula – strumento di legno – perché in questa giornata si diceva che «c’era Cristo in terra e, in conseguenza di ciò, non si facevano girare i cavalli e anche gli esseri umani per rispetto a questa terra che conteneva il corpo di del figlio di Dio, strusciavano i peri». 

Ma il venerdì è anche il momento delle processioni. «In realtà – rivela – rappresentano il lutto dei ceti commerciali: a Caltanissetta c’è la processione delle maestranze e a Palermo la processione delle confraternite. Tutta la vita attiva del popolo siciliano è in lutto e sfila con Cristo». Nelle chiese, invece, troviamo i sepolcri, piantine di cereali germogliati, a rappresentare il sepolcro nelle chiese. Poi c’è la resurrezione rappresentata con la calata della tela. «Un telone immenso – sottolinea – monocromatico, come rappresentazione della passione di Cristo che coprono presbitero e altare maggiore». Questo è il teatro pasquale ma ora è il momento di rivelare la simbologia che si cela nei piatti tipici della tradizione. Dopo il lungo periodo di quaresima (si dice longu quanto a quaresima), dopo tanto pititto, si faceva una grande abbuffata. Il piatto preferito è l’agnello pasquale «perché è l’Agnus Dei, l’agnello di Dio che viene sacrificato e ci viene dal rito ebraico». Ed ecco spiegato perché ai bambini si regala l’agnello di pasta reale, la pecorella. Ma c’è anche un motivo pratico per la morte di questi poveri agnellini. 

«Si ammazzano solo i maschi perché si dice che in Sicilia, a marzo, finiscono periche e lattuche. Sparisce il verde, quindi questi agnellini non allattano più e non figliano: non sono produttivi, e il pecoraio se ne sbarazza». Non tutti, però, mangiavano la stessa parte. «I ricchi sceglievano il cosciotto di agnello, i poveri la parte più ossuta i pittinicchi, il costato». Ma passiamo ai dolci: la regina della festa, come tradizione vuole, è la ridondante e lussuosa cassata siciliana. Il dolce ripieno di ricotta ricoperto di canditi. Anche questa leccornia, tuttavia, è un falso storico: «La vera cassata non è quella con tutti questi fronzoli – avverte – questa è una invenzione della fine dell‘800 del pasticcere palermitano cavaliere Gulì. Fu lui che inventò questa cosa che è un veleno, dimenticando che la ricotta con canditi fa venire una incredibile botta d’acito». La vera cassata, in realtà, non fa male, ha duemila anni ed è quella al forno. «Dalla forma rotonda come il sole che muore e risorge ogni giorno, la cassata fin dall’antichità è stata legata al rito pasquale, collegandolo alla morte e resurrezione di Cristo». E i chicchi di cioccolato? «Un’altra minchiata aggiunta dopo – sbotta – il termine cassata viene dal latino caseatum, al plurale cassata, ossia cacio addolcito con il miele». 

Basile ricorda anche il dolce forse più arcaico e antico, originario del mondo contadino, il pupu con l’uovo, un uccello con le sembianze di bambino o di donna: «Doveva ricordare lo Spirito santo – spiega – perché il Vangelo riporta che dopo la morte del figlio di Dio, lo Spirito scese sotto forma di colomba». Ma i festeggiamenti di Pasqua non si fermano alla domenica: il lunedì c’è l’immancabile gita fuori porta di Pasquetta con annessa abbuffata di crasto arrostito e stigghiola. «Il lunedì di Pasqua di circa 800 anni fa – conclude – la tradizione narra della famosa rivolta in Sicilia contro gli odiati invasori francesi. Pure questa è una grande minchiata: li vedete i palermitani fare una rivoluzione il giorno di Pasquetta?». Per lo storico palermitano, la rivolta fu il giorno dopo perché per ogni palermitano che si rispetti Pasquetta, come Pasqua, è sacra e guai a chi la tocca.

Antonio Mercurio

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