Da una parte un’ottantina di minori stranieri in mezzo alla strada a bloccare il traffico per protestare contro quello che definiscono «un sistema di apartheid». Dall’altro i gestori dell’Ipab educandato Regina Elena, arrivati al limite della sopportazione, con 16 mesi di stipendio di arretrati e un credito di due milioni di euro nei confronti del Comune di Catania. «Avevamo preventivato questa protesta da settimane, lo sapevano tutti: Comune, procura, tribunale dei minori, prefettura. Non può essere lasciato senza soldi un istituto con cento ragazzi. Sono stato abbandonato e lasciato solo. Loro, i ragazzi, hanno pure le loro ragioni». E’ Vincenzo Di Mauro, responsabile dell’Ipab, a spiegare le ragioni che hanno fatto salire la tensione stamattina.
Un folto gruppo di migranti ospiti nella struttura di via Ferrante Aporti stamani ha inscenato un’accesa protesta. «Sono saliti nel piano degli uffici amministrativi, hanno rovesciato qualche vaso, lanciato le sedie nel cortile, distrutto alcune porte e danneggiato la linea telefonica», raccontano gli educatori. Poi sono scesi in strada, bloccando il traffico. Per un paio di ore la zona è stata chiusa dalle forze dell’ordine intervenute sul posto: vigili urbani e polizia di Stato. Per questi fatti i responsabili dell’educandato hanno presentato denuncia per danneggiamento.
I migranti – molti minori, ma un’importante fetta ha superato la maggiore età – provengono dall’Africa subsahariana. Ci tengono a spiegare le loro ragioni. «Viviamo in otto in una stanza – racconta Assam, facendosi portavoce del gruppo, insieme a un altro giovanissimo ghambiano – le condizioni della struttura sono carenti, così come il cibo. Se stiamo male non ci permettono di andare in ospedale, ma ci danno qui le medicine o ci dicono che non è niente. Guardati intorno – continuano – perché secondo te non ci sono anche gli arabi che vivono con noi, qui a protestare? Gli educatori ci trattano male perché abbiamo la pelle nera. Sono razzisti, viviamo in un regime di apartheid».
Assunta Di Stefano, una delle educatrici della struttura, replica che «il trattamento è uguale per tutti», anche se ammette che «i tempi per il rilascio dei permessi sono più brevi per gli egiziani, perché questi ultimi arrivano spesso con un documento e non chiedono asilo politico, ma un semplice permesso di soggiorno per minore età, iter che ha una strada più breve. Ma questo – continua – è difficile spiegarlo a loro, non lo accettano o non lo capiscono». Chi ha già superato i 18 anni non ha un avvocato, né un tutore. Fattore che complica ancora di più l’iter per il rilascio della protezione e che fa venire meno la figura in grado di rassicurare i migranti sulla complicata burocrazia italiana e i suoi tempi.
Dai balconi dei palazzi vicini, che guardano al vicino stadio Massimino, qualcuno si affaccia e scuote la testa. «Noi – spiega Assam – non vogliamo creare problemi a nessuno, non vogliamo entrare in competizione con gli italiani. Ma come si fa a stare chiusi qua dentro per un anno e mangiare e dormire soltanto? Noi pensiamo, pensiamo a un sacco di cose. Io ad esempio non sono venuto per restare nel vostro Paese, vorrei andare in un’altra nazione europea, ma mi è impedito». Circa metà
degli 80 migranti ospiti al momento della struttura di via Aporti sono arrivati qui un anno fa. «Dovevano restare pochi giorni, ci erano stati mandati in emergenza perché si doveva svuotare il Palaspedini, invece sono ancora qui», precisa Assunta Di Stefano che spiega come viene gestito il pocket money, cioè la quota che ogni giorno spetta ai migranti per legge. «Diamo due euro al giorno, ma li paghiamo a fine mese: sono 60 euro, più altri 10 per le ricariche telefoniche. Ma ad aprile non siamo riusciti a pagare perché non abbiamo più risorse». In verità questi pagamenti sono stati effettuati solo saltuariamente. E’ ancora Assam a raccontare: «Sono qui da nove mesi, ma solo in cinque mesi ho ricevuto i soldi», e mostra un foglietto in cui ha appuntato quanto ricevuto: ad agosto 55 euro, a settembre, novembre, gennaio e marzo 70 euro. Vale a dire un pagamento ogni due mesi.
Per il responsabile Di Mauro, il problema principale è la mancanza di risorse. E’ il Comune di Catania, che gestisce i fondi del ministero degli Interni, a dover pagare la struttura che riceve 45 euro al giorno per ogni minore ospite. «Un paio di settimane fa – spiega Di Mauro – ho inviato l’ennesima lettera al Comune informandolo che non avevo più liquidità neanche per comprare il pane. Qualche giorno dopo abbiamo ricevuto 50mila euro dal Comune, ma è una goccia a fronte del credito che vantiamo, 2 milioni di euro, di cui una parte, 250mila euro, già sotto decreto ingiuntivo esecutivo». I dipendenti, una quarantina nelle tre strutture che l’Ipab gestisce, avanzano 16 mensilità. «Ma come fai a spiegare ai ragazzi stranieri che anche noi facciamo fatica ad arrivare a fine mese? Loro vedono i nostri vestiti, le nostre macchine e non capiscono».
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