Minacciati da anni dalla mafia e isolati dai compaesani I Misuraca, gli invisibili additati come «infami e sbirri»

Proiettili, teste d’agnello o di maiale mozzate, macchine bruciate, mezzi danneggiati. Ma non solo. Nell’elenco delle terribili intimidazioni rivolte a Filippo Misuraca e alla sua famiglia ci sono anche un cavallo fatto ritrovare senza zampe e quattro cagnolini tutti senza testa. E così il titolare di un’azienda edile di Giardinello si ritrova a dover condividere con la sua famiglia uno stato di terrore quotidiano. «Abbiamo subito più di 32 atti intimidatori veri – racconta oggi a MeridioNews -. L’ultimo solo tre mesi fa, hanno staccato le ruote all’auto di mia moglie». È una drammatica routine, quasi, che va avanti da ormai sei anni. È il 2013 infatti quando Misuraca decide di denunciare quello che subisce ormai da anni. L’azienda, che gestisce insieme al fratello, viene presa di mira dal clan dei Lo Piccolo, che mandano alcuni uomini a prendere accordi con i Misuraca. Vogliono la classica messa a posto, che consentirà loro di continuare a lavorare come sempre. I due imprenditori all’inizio accettano.

«Noi abbiamo pagato, quindi penso “è tutto apposto, tutto ora torna regolare”», crede Filippo. Ma non è esattamente così. «Ci hanno chiesto di realizzare delle strutture, per un valore di 250mila euro, ma non siamo mai stati pagati per questo lavoro. Abbiamo cominciato insomma a rimetterci notevolmente. Ho sopportato fino a che non ce l’ho fatta più». Dopo sei anni, cioè, dalla prima richiesta degli uomini del clan. La goccia che fa traboccare il vaso è quando le minacce di boss e gregari travalicano la sfera professionale, per attaccarlo su quella personale. «Digli a tuo marito di godersi i suoi figli», dicono alla moglie di Filippo, avvicinata mentre era con i tre bambini. «Lì siamo impazziti, non potevamo più sopportare. Possono ammazzare me, lui, ma nessuno può toccare i nostri figli», racconta Margherita Landa, la moglie di Filippo. Così la famiglia denuncia. Scattano grossi blitz e arresti, che colpiscono le famiglie mafiose di Giardinello, Partinico e San Giuseppe Jato, lambendo anche Altofonte, Carini, San Cipirello, Corleone. Fino a processi con oltre 60 imputati, tra gregari e boss. «Un bilancio di quattro ergastoli e addirittura quattro Comuni sciolti per mafia – torna a dire Filippo -. Una cosa grossa, in un’intercettazione parlano anche di me, “sgannatici i amme e vedete se paga”, erano pronti a farmi del male».

Tuttavia, malgrado la denuncia, la famiglia Misuraca non ritrova la normalità sperata. Gli affari, ma non solo, risentono del clima di indifferenza e isolamento che si è improvvisamente creato attorno a loro. «Io fatturavo sette milioni l’anno, oggi quello che è appena sufficiente per coprire le spese lavorative, pagare i dipendenti e far sopravvivere la famiglia – spiega Filippo -. Dormo nelle baracche, direttamente nei cantieri, per contenere le spese. I dipendenti si sono licenziati quasi tutti in tronco, ne restano pochi, fedeli da vent’anni. Mia moglie, che è architetto, è precaria a scuola». Durante i processi, in cui la maggior parte degli imputati sceglie il rito abbreviato, la famiglia Misuraca si affida al sostegno di alcune associazioni antiracket che, però, deludono le loro aspettative: «Tutte speculazioni. Siamo stati abbandonati da tutti, compresi gli avvocati. Finiti i processi sono spariti tutti. Per loro – spiega – siamo solo dei numeri, delle pratiche». È la stessa impressione maturata, negli anni, anche da parte della moglie Margherita, che ancora oggi ricorda con amarezza certe prese di posizione dei legali che in passato li hanno particolarmente feriti.

«Noi non abbiamo mai avuto niente, gli avvocati ci dicevano solo “dovete aspettare, dovete aspettare”, ma aspettare cosa? Mia figlia di sei anni ha assistito all’incendio di una delle nostre auto, mentre mio marito era impietrito dallo sgomento, e lei, che è dovuta andare da uno psicologo per due anni, ha cominciato a non dormire più la notte perché diceva che doveva proteggere la mamma e il papà, si spaventava che ci potesse succedere qualcosa. Quando dicevo queste cose agli avvocati, ricordando loro che noi abbiamo tre bambini che rischiano tutti i giorni, ci siamo dovuti sentir dire “non sono figli miei”, siamo arrivati a questo. “I problemi vostri non sono nostri” ci dicevano, e a parlarci così sono le stesse persone che poi si riempiono la bocca con l’antimafia, tra giornali, tv e apparizioni pubbliche». Dallo psicologo c’è finito anche Filippo. Che, per inciso, è in cura nel reparto di Psichiatria e assume da tempo ormai il Tavor, noto farmaco per combattere l’ansia e l’insonnia. «Ci siamo trasferiti, non stiamo più a Giardinello ormai, ci avevano isolato tutti. Vado a prendere quel farmaco la sera, sperando che non mi veda nessuno, perché sarebbe facile strumentalizzare la cosa e dire in giro che sono diventato pazzo – rivela a metà tra il pudore e l’imbarazzo Filippo -. Lo Stato mi ha riconosciuto danni psicologici e morali».

«Io sono stato abbandonato da tutti. Non mi interessano i soldi, non mi interessa la scorta. Chiedo solo di essere messo in condizione di lavorare normalmente, la mia azienda non è fallita, è ancora attiva, ma da quando abbiamo denunciato nessuno ci dà lavoro». A voltare le spalle a questa famiglia sono anche le banche. «A mia moglie, un importante dirigente della Monte dei Paschi di Siena di via Libertà a Palermo ha detto: “Signora, se a suo marito lo ammazzano, lei poi come lo paga il finanziamento?”. E quindi tutto bloccato». E poi c’è il paese. Anzi, i paesi. Perché a contribuire all’isolamento dei Misuraca è tutto l’hinterland, senza differenze. «Non abbiamo nessuno dalla nostra parte, né concittadini né parenti. I miei figli non hanno più compleanni, non viene nessuno, che festa dobbiamo fare? – racconta Filippo -. Per loro è un trauma. Per tutti siamo solo degli sbirri, ci tengono a distanza». Un clima difficile da affrontare tutti i giorni, cercando nel frattempo di gestire anche le ripetute intimidazioni fatte recapitare da Cosa nostra, che le ostinate denunce della famiglia non riescono a fermare. «Quando andavo in cantiere da mio marito, mentre passavo per la strada la gente mi sputava ai piedi – racconta anche Margherita -. Qualcuno mi dice “brava, io non lo avrei avuto questo coraggio”, però poi non ti cercano più, non esci più, tutti gli amici sono spariti. Molti erano imprenditori, forse siamo diventati degli amici scomodi ora che giriamo con i carabinieri».

Sono infatti i militari dell’arma che cercano di dare una mano a questa famiglia. Facendo anche cose che non rientrano esattamente nei loro compiti, come scortare fino a scuola Margherita e i tre figli. Mentre con Filippo l’incarico è quello di scortarlo fino all’ingresso dell’autostrada e poi andare a riprenderlo al ritorno. Pazienza per quello che potrebbe accadergli strada facendo, gli ordini sono solo questi. «Quando la pattuglia è impegnata e non può venire mi dicono di andare da solo e avvisarli appena arrivo a casa – dice Filippo -. Lo Stato è presente ma per gli altri, quelli di serie a. Per quelli che si lamentano pubblicamente e ottengono visibilità e scorte. L’arma però cerca davvero di fare il possibile, se oggi sono in vita è grazie a loro. Il più piccolo dei miei figli per carnevale ha voluto il vestito da carabiniere, perché praticamente è cresciuto in mezzo a loro». Ma una vita così, tuttavia, non è facile neppure se, per la giovane età, non comprendi appieno il senso di ciò che accade alla tua famiglia. Specie se anche a scuola non ti viene resa la vita facile. «“Sei una porca grossa infame”, è quello che un bambino di nove anni ha detto a mia figlia a scuola, un figlio di una famiglia vicina alla mafia – racconta ancora Margherita -. La maestra ha replicato “lo sa che famiglia è?”. Significa nessun provvedimento, nessuna punizione, “meglio che ve la sbrigate tra voi mamme, io non voglio essere messa in mezzo” mi ha risposto la maestra. Quanta omertà che abbiamo visto, mi vergogno di essere loro concittadina».

L’isolamento e le minacce però non li piegano. E vanno avanti. «In mezzo a tutto questo, noi abbiamo sempre portato a termine ogni lavoro. Ancora oggi aspettiamo 25mila euro dal Comune di Montelepre per dei lavori fatti e mai pagati». Soldi che farebbero comodo, oggi più che mai, a una famiglia che ha dovuto rinunciare a molte cose. «Tutti i miei beni sono finiti all’asta, mi sono venduto tutto, dall’oro ai chiodi appesi al muro. Va bene così, mi basta non perdere la dignità. Mi chiamano sbirro, cosa inutile, pezzo di merda. Dicono tutti “cu ciu fici fare”, “se pagava diecimila euro era a posto”. Intanto, la settimana scorsa ho ricevuto un prefallimento per settemila euro, per la sospensione dei termini, se non era per l’associazione Sostenitori dei collaboratori e dei testimoni di giustizia io non ce l’avrei fatta, è da lì che ho ricevuto i soldi necessari». Associazione di cui Margherita è oggi presidente e Filippo il tesoriere, e che fa rete tra tutte le persone che hanno denunciato, dalle vessazioni della mafia a quelle di un compagno violento. Dando una mano a gente che per il resto del mondo nemmeno esiste. «A me e ai miei figli non spetta nessun tipo di tutela o protezione – torna a dire Margherita -. Vittime di serie a, di serie b? Noi forse non siamo nemmeno di serie c, perché non esistiamo per nessuno. Sembra quasi che paghiamo lo scotto di aver chiesto rispetto e tatto per quello che stavamo vivendo. Quindi, se al contrario non cerchi una vetrina in cui apparire, non conti niente, non esisti appunto. Niente mediaticità quindi niente profitto per nessuno. Praticamente – conclude – non siamo degni di essere né considerati né protetti».

Silvia Buffa

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