«Sono più di mille i beni che in questo momento sono stati assegnati al Comune di Palermo per finalità di carattere istituzionale o sociale. È un’esperienza complessivamente positiva che però sconta una serie di criticità come la mancanza di risorse appropriate, di un apparato organizzativo adeguato a questo profilo, e di un quadro normativo ancora problematico». Molti, infatti, si trovano in condizioni di abbandono e necessitano di ingenti somme per essere recuperati. Un disagio comune agli immobili e alle aziende sottratti alla criminalità organizzata legato, in parte, ai tempi smisurati dell’attuale normativa sulle misure di prevenzione, come sottolinea il docente di Diritto amministrativo dell’Università di Palermo Nicola Gullo, autore del libro Emergenza criminale e diritto amministrativo. L’amministrazione pubblica dei beni confiscati, presentato ieri a Palermo.
«I tempi dei provvedimenti di prevenzione sono abbastanza lunghi – prosegue Gullo – così come gli stessi provvedimenti di destinazione gestiti dall’Agenzia, caratterizzati da notevoli ritardi. È un’esperienza che deve essere perfezionata, partendo dal livello centrale». Per lo studioso occorre migliorare le capacità operative dell’Agenzia nazionale per stimolare maggiormente le realtà e amministrazioni locali. «Ci sono spese ingenti di gestione di alcuni beni e non è facile in questa situazione generale di crisi finanziaria degli enti locali trovare le risorse finanziarie. Ci sarebbe bisogno di una maggiore incentivazione da parte della legislazione nazionale con risorse finanziarie dedicate». Un terreno da sempre assai scivoloso caratterizzato recentemente da accese polemiche, anche a seguito della possibilità di cessione a privati di alcuni dei beni confiscati come previsto dal decreto Sicurezza, convertito in legge in questi giorni.
Polemica che sembra destinata a crescere, dopo la modifica di una norma – che cambia il comma 10 – che prevede il riparto 90-10, ovvero che il 90 per cento dei proventi venga ripartito per il 40 per cento al ministero dell’Interno, per un altro 40 per cento a quello della Giustizia e per il 20 per cento all’Agenzia dei beni confiscati. Il 10 per cento rimasto, invece, confluisce in un fondo costituito al Viminale per le spese di manutenzione ordinaria e straordinaria. In pratica, dei beni venduti – e quindi sottratti al territorio – quasi nulla ritorna alla regione d’origine, mentre la quota destinata all’Agenzia è stata ridotta ulteriormente (prima era del 20%). E se si considera che la Sicilia è la regione con il maggiore numero di immobili confiscati (due quinti del totale in Italia), risulta evidente l’iniquità della misura. «Proporrò al presidente della Regione l’impugnativa in Corte costituzionale nei confronti del decreto Sicurezza perché non prevede, in caso di vendita dei beni confiscati alla mafia, alcuna restituzione al territorio, nonostante la Corte costituzionale dica il contrario – annuncia il vice presidente della Regione siciliana e assessore regionale al Bilancio, Gaetano Armao, nel corso del convegno – Ai territori non arriva niente ma il 50 per cento dei beni confiscati alla mafia è in Sicilia, così assistiamo a un paradosso: i siciliani sono depredati due volte, prima dalla mafia e poi dallo Stato, ecco perché stiamo predisponendo l’impugnativa del decreto sotto il profilo della mancata restituzione ai territori, anche in parte, dei proventi della vendita di questi beni».
Tornando ai freddi numeri, sul piano della distribuzione dei beni oltre il 95 per cento degli immobili già destinati è concentrato in otto regioni, con una netta prevalenza della Sicilia (40%) seguita da Calabria (17%), Campania (14%), Puglia (11%), Lombardia, Lazio, Piemonte ed Emilia Romagna. Per quanto riguarda gli immobili ancora da destinare (17.882), le otto regioni con la maggior concentrazione di beni immobili in gestione restano le stesse, dove si concentra il 92 per cento del totale. In particolare l’Isola guida la classifica (36%), Campania (15%) e Calabria (13%) seguono poi la Lombardia dove si localizzano quasi il 10% degli immobili da destinare e il Lazio con poco più del 7% del totale. «Il punto di partenza è ovviamente la legge Rognoni-La Torre – afferma Vito Lo Monaco, presidente del Centro studi Pio La Torre – che introduce il reato di associazione per stampo mafioso e la confisca dei beni che si fonda sul principio della restituzione alla società dei beni confiscati alla mafia proventi dell’attività criminale».
Principio su cui il dibattito non si è mai chiuso, alimentato sempre da nuove diatribe. L’ultima, in ordine di tempo, si deve al decreto Salvini, con un governo «che apre la vendita dei beni allargando la platea a tutti i privati. Non perché siamo contrari in toto alla cessione, ma per l’assenza di paletti certi per chi acquista. Tenuto conto che la mafia non è più quella delle stragi ma che, attraverso la corruzione, è penetrata nel sistema economico e istituzionale e si è fatta classe dirigente, come si distingue l’acquirente che è ponte con capitali illeciti? Una mafia che cambia ha bisogno di un’antimafia che cambi».
Non mancano, tuttavia, alcuni aspetti positivi introdotti dalla nuova normativa: ad esempio l’assunzione tramite selezione di 70 nuovi dipendenti destinanti all’Agenzia: «Ma il concorso non si fa in due mesi – aggiunge Lo Monaco – Bisogna fare i bandi, le selezioni… La dichiarazione che si sono rafforzati gli strumenti contro la mafia è una sciocchezza, c’è bisogno di tempo. Non ci sono ancora le norme attuative – conclude – rimangono solo dichiarazioni di principio».
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