Semmai la mafia barcellonese abbia mai avuto un «volto pulito», da ieri quel volto è ai domiciliari. A definire così Santino Napoli, 67enne arrestato ieri insieme ad altre 39 persone nell’ambito dell’inchiesta Gotha VII, è Salvatore Centorrino, uno dei tanti collaboratori di giustizia che in questi anni hanno fatto il nome dell’uomo indicandolo come una delle persone di fiducia della famiglia attiva nel comprensorio tirrenico. Napoli è stato fermato in un’operazione che rappresenta il settimo capitolo di quella che potrebbe essere definita una saga giudiziaria, con l‘ennesima decapitazione dei vertici di Cosa nostra nell’hinterland barcellonese.
Infermiere nell’ospedale mamertino, Napoli è stato per vent’anni uno dei protagonisti della scena pubblica di Milazzo, riuscendo dal ’93 al 2013 a ricoprire ininterrottamente la carica di consigliere comunale. Un’esperienza che, nel 2015, ha provato ad allungare senza successo: nonostante i 246 voti ottenuti, la lista Milazzo Green con la quale si era candidato non ha superato lo sbarramento. Per comprendere a pieno i contorni del suo arresto bisogna tuttavia rifarsi proprio alla carriera politica. A rimarcarlo nell’ordinanza siglata dalla gip Monica Marino sono pentiti del calibro di Carmelo e Francesco D’Amico, ma anche Nunziato Siracusa e il già citato Centorrino. Tutti sottolineano il tornaconto che la famiglia barcellonese avrebbe avuto nel far sì che Napoli riuscisse a spuntarla a ogni tornata elettorale.
I motivi sarebbero stati molteplici. Uno dei compiti principali del consigliere sarebbe stato, per esempio, quello di «segnalare all’organizzazione le imprese che sarebbero venute a lavorare a Milazzo, in modo da sottoporle ad estorsione». Servizio che Napoli avrebbe prestato con costanza, ottenendo in cambio lauti compensi: due milioni di lire al mese, a cui andavano aggiunti nel periodo di Natale – a sottolinearlo ai magistrati è Siracusa – «una mensilità doppia e un cesto di genere alimentari». Nella gestione delle estorsioni, Napoli avrebbe fatto anche da intermediario: gli imprenditori raggiunti dalle intimidazioni, che in genere venivano effettuate facendo trovare loro delle bottiglie incendiarie, si sarebbero rivolti al consigliere comunale per avviare i contatti per la messa a posto.
Il 67enne, dal canto suo, avrebbe mostrato una notevole poliedricità. Viene indicato tra quelli che avevano il compito di controllare il territorio. «Doveva avvisarci se vi fossero state operazioni di polizia», spiega Siracusa davanti ai pm. Gli affari tra Napoli e i vertici dei barcellonesi avrebbero riguardato anche attività economiche: per conto dei fratelli D’Amico, l’infermiere si sarebbe occupato anche di alcune discoteche. Per le quali avrebbe chiesto ai mafiosi di assicurare che all’interno dei locali non accadesse nulla. A volte però mantenere la tranquillità sullebpiste da ballo non era semplice e per questo il clan sarebbe stato in procinto di usare le maniere forti: a tal proposito Carmelo D’Amico ricorda che, una sera di inizio anni Duemila, insieme ai propri sodali, era pronto a ricevere con le armi un gruppo di messinesi. Lo scontro sarebbe stato evitato soltanto grazie all’intercessione di Enzo Santapaola, nipote dello storico boss catanese Nitto.
Le richieste, tuttavia, non sarebbero state a senso unico. A cercare i favori sarebbe stato lo stesso Napoli. Cortesie che, in alcuni casi, sarebbero coincise con pestaggi. Francesco D’Amico sostiene che una volta «Napoli disse di andare a picchiare un fioraio che lavorava vicino al cimitero di Milazzo e che voleva fare andare via dal luogo ove esercitava la sua attività». La spedizione punitiva sarebbe avvenuta e il consigliere comunale si sarebbe occupato del pagamento delle spese legali a uno degli uomini che partecipò al pestaggio, e per esso poco dopo arrestato. Non tutti i desiderata di Napoli però sarebbero stati accolti dagli esponenti mafiosi: tra le richieste non esaudite ci sarebbe stato l’incendio di un’automobile e una fornitura di proiettili.
Tra i collaboratori di giustizia c’è poi chi accenna a contatti risalenti a un periodo antecedente all’inizio della carriera politica. Come il collaboratore Centorrino che ai magistrati racconta di avere conosciuto l’infermiere nell’89, in occasione della propria latitanza. L’uomo – uscito dal carcere con un permesso legato alla decisione di sposarsi – si sarebbe rivolto a Napoli su consiglio di Giovanni Ilardo, ferroviere fratello del più noto Luigi – ucciso a Catania nel ’96 – e all’epoca dei fatti rappresentante dei Santapaola a Milazzo.
Sono solo alcuni degli aneddoti su cui oggi si poggia l’accusa per Napoli di concorso esterno a Cosa nostra (i pm avevano chiesto l’arresto per associazione mafiosa). Uno scenario che a Milazzo negli ultimi anni in molti avrebbero sentito nell’aria – il nome dell’ex consigliere era emerso anche in altre operazioni antimafia – ma che fino a ieri mai aveva portato a un arresto. E questo nonostante il rapporto tra Napoli e la mafia sarebbe stato solido al punto che, in occasioni delle elezioni, i barcellonesi non avrebbero avuto bisogno di esercitare intimidazioni verso terzi per garantirgli il seggio: «Erano sufficienti i voti espressi dai componenti del’organizzazione e dei loro affiliati», rimarcano i magistrati.
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