L’accusa continua a sostenere con ferma convinzione che il giovane eritreo estradato in Italia a giugno e ora detenuto al Pagliarelli di Palermo sia Yedhego Medhane Mered, il latitante a cui davano la caccia dal naufragio del 2013 nel Mediterraneo. E per questo gioca la carta di una memoria in cui emergono nuovi particolari inquietanti sui trafficanti di esseri umani. Ci sarebbero state, infatti, foto di cadaveri di migranti smembrati all’interno del telefono sequestrato all’eritreo detenuto al carcere di Pagliarelli e che al momento non si trova più in isolamento. Un dettaglio confermato anche da Michele Calantropo, difensore dell’uomo. «Queste immagini ci sono – spiega il legale a MeridioNews – e sono quelle che le persone che conosce Medhane gli hanno mandato per spiegare cosa fanno ai profughi i trafficanti». «Erano state cancellate dal dispositivo, ma sono state recuperate» continua Calantropo, che continua a battersi per provare che il suo assistito sia in realtà Tesfamarian Mered, vittima di un clamoroso scambio di persona presumibilmente avvenuto nelle carceri eritree. La prossima udienza è fissata per settembre, quando sarà completata anche la relazione definitiva del consulente dell’accusa. Le richieste del difensore, tuttavia, non hanno convinto il pm Geri Ferrara. Secondo il magistrato, infatti, travalicherebbero la fase preliminare.
«Tutte le mie richieste servono proprio per capire chi stiamo rinviando a giudizio e magari per risparmiarci quattro anni di processo concentrandoci sulla persona sbagliata» dice Calantropo, che insiste: «Tutte le considerazioni dell’accusa sono di certo suggestive, ma prive di fondamento». Il legale spiega che fino a ottobre 2015, infatti, le autorità italiane non prendevano le impronte dei migranti di origine eritrea e che i due testimoni a favore di Tesfamarian Mered non avrebbero dato le proprie generalità per poter fuggire e ottenere poi lo status di rifugiati in Svezia. Tra le richieste respinte dalla giudice c’è quella di comparare le traduzioni dei messaggi Viber e Facebook e delle e-mail ritrovate nel telefono che l’imputato aveva con sé, «traduzioni non prive di errori» secondo la difesa. Oltre alla possibilità per Semar, la donna che si dichiara sorella di Tesfamarian Mered, di ottenere il visto che le permetterebbe di sottoporsi al test del dna.
Al vaglio della giudice Geraci anche la trascrizione di due interrogatori, uno dell’11 maggio 2015 e l’altro dell’1 aprile 2016, di Nuredin Wehabrebi Atta, il primo migrante a divenire collaboratore di giustizia, che avrebbe dichiarato espressamente, guardando una foto del presunto boss, che si tratta proprio del trafficante di uomini ricercato, ma dice anche di averlo conosciuto a Catania nel 2014 col nome di Abdega Asghedom. Potrebbe effettivamente aver riconosciuto come il vero ricercato un uomo diverso dall’imputato. Nel mirino dell’accusa, inoltre, le dichiarazioni di due testimoni, Yemane Ambesaier e Robert Kelete. Loro dicono di essere arrivati in Italia sui barconi nel dicembre 2013 e che uno dei due sarebbe poi fuggito da un centro d’accoglienza ma, secondo i magistrati, non ci sarebbe nessuna prova che loro abbiano mai messo piede nel nostro paese né che siano poi fuggiti. Se fosse così, devono essersi rifiutati di dare le impronte o, peggio, potrebbero aver dato delle generalità false. Ma in questo caso i due non avrebbero parlato per non incorrere nel reato di falsa testimonianza.
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