Quello di Tripoli non poteva essere considerato un porto sicuro. Ciò che per molti era un fatto incontestabile, alla luce della situazione geopolitica nel paese nordafricano, adesso è stato messo nero su bianco dal tribunale di Agrigento: la scelta di Carola Rackete, la comandante della Sea Watch, di soccorrere i migranti alla deriva nel Mediterraneo, nell’estate 2019, rispondeva soltanto all’obbligo di salvataggio in mare. Questo il punto fermo attorno a cui ruota il decreto di archiviazione firmato dalla giudice per le indagini preliminari Micaela Raimondo, in merito ai fatti accaduti al largo e dentro il porto di Lampedusa. Già ad aprile la posizione di Rackete era stata archiviata in merito all’accusa di avere speronato la motovedetta della finanza che si trovava vicino alla banchina del porto siciliano.
A chiedere l’archiviazione del nuovo procedimento sono stati il procuratore aggiunto Salvatore Vella e il pm Cecilia Baravelli. Al centro dell’indagine la decisione di entrare nelle acque territoriali italiane, nonostante l’ordine della finanza di ritornare in acque internazionali. A bordo della Sea Watch c’erano 53 persone. «(Rackete, ndr) ha agito – si legge nel decreto di archiviazione il gip – nell’adempimento del dovere perché non si poteva considerare luogo sicuro il porto di Tripoli. La condotta risulta scriminata dalla causa di giustificazione». La giudice, facendo riferimento a un report dell’Alto commissariato per le Nazioni Unite, ha sottolineato che «migliaia di richiedenti asilo, rifugiati e migranti in Libia versano in condizione di detenzione arbitraria e sono sottoposti a torture».
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