Quarantanove cadaveri intrappolati nella stiva di un barcone che aveva viaggiato per una sola notte. Chiusi lì e costretti a restarci con calci, pugni e colpi di cinghia. È quanto emerso nel corso dell’incidente probatorio che i magistrati hanno svolto nei giorni scorsi. A essere sentiti dal giudice sono stati alcuni dei migranti sopravvissuti e soccorsi il 15 agosto dalla nave Cigala Fulgosi della Marina militare italiana.
I testimoni hanno raccontato quanto accaduto durante il viaggio. E hanno riconosciuto il comandante dell’imbarcazione e gli altri membri dell’equipaggio. A guidare la barca sarebbe stato il libico Ayooub Harboob, affiancato da Tarek Jomaa Laamami (classe 1996, sedicente libico), Mohamed Assayd (classe 1997, sedicente libico), Alì Farah Ahmad (classe 1997, sedicente libico), Mohannad Jarkess (che inizialmente si è dichiarato minorenne ma che è stato identificato come maggiorenne), Mustapha Saaid (classe 1992, sedicente marocchino), Isham Beddat (classe 1987, sedicente marocchino) e Abd Arahman Abd Al Monssif (classe 1997, sedicente libico).
Oltre al comandante, i sette fermati – secondo i sopravvissuti – avrebbero avuto il compito di mantenere l’ordine a bordo e di impedire, anche con la violenza, di impedire ai migranti di salire dalla stiva sul ponte esterno. Per 37 delle 49 salme è stato dato il via libera al seppellimento. Mentre per le altre 12 salme sono in corso gli esami autoptici per ulteriori accertamenti. Le cause del decesso sono verosimilmente riconducibili all’assenza di aria all’interno della stiva.
La stiva era alta 1,20 metri, profonda sei e larga quattro. Le dimensioni, però, andavano diminuendo avvicinandosi agli estremi. All’interno del vano erano stati sistemati solo uomini, in base alla loro nazionalità. Prima quelli provenienti da Bangladesh e Pakistan, poi, in fondo, i sub-sahariani. Sul ponte avevano trovato posto, invece, siriani, libici e migranti provenienti dal Maghreb, assieme a donne e bambini.
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