Finora tutti i consorzi universitari s’erano lasciati sedurre dalla prospettiva di giungere, prima o poi, alla costituzione di un ateneo autonomo: “Università di Ragusa”, “Università di Siracusa”… Perché no? In fondo ottenere il riconoscimento di un nuovo ateneo non sembrava impossibile. L’avventura della Kore di Enna aveva fatto scuola: bastavano gli appoggi politici giusti e molta determinazione, un po’ di furbizia nel pompare le iscrizioni con “lauree all’esperienza” a buon mercato a disposizione di legioni di dipendenti regionali e guardie di finanza, molta fantasia nel dipingere in rosa la realtà di sedi universitarie sprovviste di adeguate strutture per la ricerca (laboratori e biblioteche) e per il diritto allo studio. L’imminente abolizione del valore legale della laurea, o l’ardita manipolazione dei parametri di valutazione nelle “classifiche” degli atenei, avrebbe fatto il resto. Nell’era degli “atenei telematici” promossi dalla ministra Moratti, chi poteva trovare qualcosa da ridire sulla santa aspirazione di un ateneo sotto ogni campanile?
Da un lato perciò i consorzi hanno puntato sulla quantità, ansiosi di accumulare il maggior numero possibile di “facoltà” e di corsi di laurea; senza curarsi della qualità e senza badare agli oneri che ne sarebbero derivati, cioè firmando convenzioni e rinviando il più possibile i pagamenti perché a pagare c’è sempre tempo.
Ancora una volta, l’esempio della Kore mostrava che esistono mille vie per cavarsela: “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto”. Dall’altro lato l’ateneo non aveva fatto nulla per scoraggiare la proliferazione incontrollata di corsi decentrati. Le facoltà vi avevano trovato una valvola d’ossigeno per promuovere nuovi posti di ruolo e lo sviluppo delle carriere. Sotto la gestione del rettore Latteri l’ateneo si era inchinato dinanzi alla “libera concorrenza” tra le facoltà e alle pressioni dei politici locali.
Così dal decentramento “virtuoso” di Agraria e Lingue a Ragusa, o di Architettura e Lettere (Scienze dei Beni culturali) a Siracusa, pensati come poli forniti di forte peculiarità, si era ben presto passati al decentramento indiscriminato e ipertrofico, gravando il consorzio ibleo dei corsi di Giurisprudenza e di Medicina, senza contare Modica, Comiso e tutte le gemmazioni minori. Nel giro di pochissimi anni, la mappa dei decentramenti dell’Università di Catania si è incredibilmente infittita delle bandierine che segnalavano nuovi corsi di laurea sparsi un po’ dappertutto nel Sud-Est siciliano, mentre nel bilancio dell’ateneo andava pericolosamente crescendo la “bolla” dei crediti legati al rispetto delle convenzioni coi consorzi universitari locali. Sempre meno affidabili: “pagherò (forse)”. Del resto come poteva il rettore scontentare facoltà forti? E perché preoccuparsi della tenuta di corsi di laurea basati in gran parte su una pattuglia di docenti a contratto retribuiti in maniera simbolica, o sulla buona volontà dei docenti “giovani” immedesimati nel ruolo dei pionieri?
A turbare un andazzo così spensierato sono intervenuti vari fattori: la dieta imposta dall’adeguamento a un numero minimo di docenti di ruolo per ogni corso di laurea, la crisi finanziaria degli enti locali e i conseguenti mal di pancia di Province e Comuni al momento di investire sulla presenza dell’Università, i tagli imposti dalla Gelmini che rendono inconsistente la prospettiva di fondare nuovi atenei e, per finire, gli aumenti stipendiali scaricati sul bilancio degli atenei che fanno sì che le attuali convenzioni siano inadeguate persino a soddisfare l’onere dello stipendio ai docenti.
A questo punto il Rettore Recca non poteva far altro che rendersi interprete dell’insostenibilità della situazione. Lo ha fatto attraverso il famoso “ultimatum” del 31 maggio, imponendo – in mancanza di garanzie finanziarie – il blocco delle iscrizioni al primo anno ed esponendosi alla sdegnata reazione degli amministratori e dei politici locali. Ma adesso si tratta di compiere scelte serie tanto all’interno dell’ateneo quanto da parte dei consorzi universitari, coinvolgendo, oltre agli studenti, anche un altro attore che finora è rimasto ai margini della questione, cioè l’opinione pubblica.
Occorrerà elevare il livello della discussione, bandendo ogni forma di demagogia campanilistica. La presenza di poli decentrati del Siculorum Gymnasium deve essere considerata come un investimento di lunga durata e ha costi che non possono essere aggirati abbassando paurosamente il livello qualitativo della didattica e della ricerca. La stagione dell’università in saldo e del “prendi tre, paghi uno” è finita.
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