Matt Dillon chiude il ciclo di lezioni di cinema del Taormina FilmFest

È Matt Dillon, l’abile e camaleontico attore americano che vanta una lunga carriera cinematografica nel corso della quale è stato diretto da grandi cineasti come Francis Ford Coppola e Gus Van Sant, il protagonista dell’ultima lezione di cinema che si è svolta ieri al Palacongressi di Taormina dopo la proiezione di City of Ghosts, suo primo film come regista.

 

Proprio come durante l’incontro con Tornatore, il pubblico è ritornato numeroso, attratto e incuriosito forse più dalla star che da quello che l’attore aveva da dire sul suo nuovo mestiere. I flash delle macchine fotografiche dei fan, infatti, non hanno smesso di illuminare il palco durante tutto il corso dell’intervista che la produttrice Olivia Stewart ha rivolto a Dillon, interprete di grandi successi come Tutti pazzi per Mary e Crash. “Ho scelto di scrivere City of Ghosts e cominciare a fare il regista perché amo raccontare storie e perché mi piaceva l’idea di fare un film che avrei voluto vedere. Ero deluso dai copioni che mi proponevano e quindi ho pensato a questa storia. L’idea per il soggetto – aggiunge – mi è venuta dopo aver letto un articolo sull’Herald Tribune in cui si affermava che molti criminali si rifugiano in Cambogia perché lì non esiste l’estradizione”.

 

Il film di Dillon ha come protagonista, infatti, un giovane truffatore newyorchese, Jimmy, che scappa dagli USA per rifugiarsi in  Cambogia sulle tracce del suo maestro Marvin che era fuggito via portando con sé il bottino. Nell’ameno, caldo e pericoloso paesaggio cambogiano, Jimmy non deve solo ritrovare Marvin ma anche e soprattutto se stesso, in un cammino pieno di ambigue peripezie che lo portano al cambiamento attraverso diverse rivelazioni sul rapporto paterno, sull’amicizia e sull’amore. “Così come Jimmy compie un processo quasi organico di crescita spirituale, allo stesso modo, nel corso della preparazione del film, sono cresciute e si sono trasformate le mie idee e le mie scelte. Per esempio – dice Matt – la fine del film non è quella che avevo pensato inizialmente: Jimmy doveva tenere i soldi, ma dopo aver visto come le persone vivono in Cambogia ho cambiato idea. Sono diventato meno cinico. Anche io ho subito un processo di crescita e cambiamento”.

 

Del film colpisce la visione decadente della capitale cambogiana e la scelta di indugiare sui particolari – “ho posto moltissima attenzione ai dettagli in questo film, sono fondamentali per me” dice infatti Dillon. Apprezzabile anche la volontà di ricostruire un quadro d’insieme attraverso i piccoli affreschi che sono le vite dei tanti personaggi e la buona colonna sonora (“la musica è fondamentale per me, nel film e nella vita; nel film c’è molto rock cambogiano che mi piace molto e che contribuisce a creare la giusta atmosfera”), ma il ritmo lento, lo schema della storia (fuga-viaggio-ricerca-agnizione-redenzione) trattato in maniera scialba e convenzionale e un finale fiacco che, nonostante le buone intenzioni, non riesce ad avvincere lo spettatore, rendono l’opera del neoregista poco affascinante e banale. Un’altra prova della non brillante prova di Dillon come sceneggiatore è data dalla presenza nel film di incongruenze temporali: ci sono, per esempio, scene in cui sembrano essere passati giorni che vengono smentite dalle successive nelle quali si riprendono azioni che potevano svolgersi solo in poche ore.

Dillon sta cercando la sua strada come regista e per la sua prima opera si ispira chiaramente alle atmosfere oniriche e conradiane del capolavoro di Francis Ford Coppola. E al pubblico che lo interroga sul suo rapporto con questo regista e sul loro futuro progetto insieme dice: “Francis è per me un regista importantissimo. Gli ho chiesto anche dei consigli per il mio film. Il nostro progetto è ancora in corso ed è quindi troppo presto per parlarne, però posso dirvi che amo poter lavorare con un amico”. Uno spettatore gli domanda se è stato influenzato anche da David Lynch per gli elementi onirici e da incubo, ma Dillon risponde che “per quanto riguarda il surrealismo presente nel film forse mi sono inconsciamente ispirato a Fellini”.

 

Molte sono state le domande del pubblico, rivolte soprattutto al Matt Dillon attore, curioso di conoscere come è stato per lui interpretare i personaggi di film come Factotum, Sex Crimes e Crash: “Ogni ruolo è un processo, un’esperienza. Il lavoro di attore ti permette di fare tanti cose diverse e affascinanti, ma quello di regista è sicuramente più gratificante.” Forse perché il mestiere di regista gli dà l’occasione di realizzare opere che sono solo sue, infatti alla domanda di chi gli chiede se come regista userà solo il suo materiale o anche quello di altri, risponde: “Come attore lavoro sempre con il materiale degli altri, come regista voglio fare le mie cose”.

 

A differenza dei tre grandi cineasti, Tornatore, Paskaljevic e Davies, che si sono succeduti sul palco delle lezioni di cinema prima di lui nei giorni precedenti, l’attore/regista americano non trasmette lo stesso entusiasmante trasporto quando parla della professione di regista: non ne parla come di una missione, di una vocazione, come invece avevano fatto il regista italiano, quello serbo e quello inglese, per quanto essi siano molto diversi tra loro. Quella di Dillon sembra più una sperimentazione: “Non ho un approccio definito alla regia, voglio sempre evolvermi e cambiare. Permetterò ad ogni film di dettarmi lo stile”.

Agata Pasqualino

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