È una vera fortuna che io non capisca assolutamente nulla di calcio. Altrimenti mi verrebbe voglia, quest’oggi, di dirgliene quattro all’allenatore del Catania, Dario Marcolin. Per esempio, gli chiederei per quale arcana ragione – intorno alla metà del secondo tempo, quando il Catania vinceva per 1 a 0 contro il Livorno e controllava la partita senza eccessivo affanno – abbia deciso di togliere dal campo Rosina, l’unico che correva e s’arrabbattava per costruire qualcosa in un centrocampo praticamente deserto; e soprattutto di mettere al posto suo un rude e stagionato terzino come Capuano.
E gli chiederei ancora – se non fossi cosciente di possedere, come mia unica sapienza, la sola socratica nozione del mio non sapere – perché mai, quando a pochi minuti dal novantesimo s’è fatto male Maniero, il nostro primo attaccante, non l’abbia sostituito con un Martinho o con un Rossetti (ossia con giocatori con chiare caratteristiche offensive e un po’ di fiato nei polmoni), ma abbia preferito mettere in campo, al suo posto, un nulla di nome Chrapek.
E gli chiederei ancora, sempre se avessi titolo a farlo, che senso abbia adesso rilasciare dolenti dichiarazioni, venendo a parlarci di una partita che, se vinta, poteva ancora aprire improbabili scenari. E che invece – essendo stata sì pareggiata dagli avversari solo su rigore, sei minuti oltre il novantesimo, ma dopo una serie di occasioni da gol nate tutte, giustappunto, dopo i cambi di Marcolin – rappresenterebbe, adesso, la fine di un sogno. Che senso ha parlare di sogni – questo chiederei a Marcolin – se proprio lui per primo, Marcolin, non è stato capace di sognare? Se è stato lui il primo a tirare i remi in barca, lui il primo a rendere chiaro a tutti che non avrebbe puntato un soldo sulla possibilità di vincere la partita? Già: poiché fare i cambi che ha fatto il tecnico del Catania significa, al paese mio, dire all’avversario in difficoltà, e che finora non ha fatto un tiro in porta, e che osserva impotente il cronometro scorrere verso al novantesimo – dire a quest’avversario: fatti coraggio, e attaccaci, e prova a vincere tu, o almeno a pareggiare. Perché noi, lo si sappia, siamo tra i due quelli che hanno più paura.
Tutto questo al paese mio, s’intende. Ché Marcolin è un allenatore e gli allenatori, si sa, si distinguono spesso per le loro mosse geniali. Così geniali che il pubblico non le capisce e non le capiscono spesso nemmeno i giocatori in campo che dovrebbero attuarle. Così assurdamente geniali da rimanere incomprese, senza che a noi profani sia dato qualificarle per quel che talora ci paiono: e cioè, con rispetto parlando, per delle pure e semplici minchionerie.
Ma ciò sia detto, s’intende, dall’alto della mia totale incompetenza. E senza comunque dimenticare che affidare la panchina al buon Marcolin è stata probabilmente – per la piega che ha preso questo campionato – la soluzione più pratica per salvare il salvabile. La pezza migliore che si potesse rimediare per rattoppare il vestito, quand’era troppo tardi per cucirne uno nuovo. Altra cosa sarebbe stata, forse, fare per tempo ciò che andava fatto. Cacciare Ventrone quando lo chiedeva Sannino. Tenersi Sannino. Far fare a lui la squadra a gennaio. E a quel punto fare i conti. Ma pazienza, non era annata.
Grazie dunque sempre a Marcolin, che ci ha bene o male aiutati a uscire da sotto un tram. Ma grazie e basta: perché tra qualche mese – società permettendo – di quel tram (o di qualunque altro mezzo di trasporto sceglieremo come metafora del campionato a venire; scartando comunque la corazzata, che chiaramente ci porta sfiga) qualcuno dovrà mettersi alla guida. Qualcuno che possa condurci lungo le tappe di una risalita, verso il capolinea del nostro desiderio. Qualcuno che sappia osare il necessario per restituirci il piacere di sognare un po’. Qualcuno che sappia ridare ai nostri pomeriggi allo stadio il tepore cui ci avevano abituati quei dolci otto anni di serie A.
E quel qualcuno, con tutto il rispetto, non può essere Marcolin.
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