Marchionne, Termini ricorda l’uomo che chiuse lo stabilimento «Quella volta che disse: “il problema sociale è del governo”»

Può un uomo essere ricordato per un singolo gesto? Nel caso di Sergio Marchionne forse sì. L’ormai ex amministratore delegato di Fiat (dal 2014 Fca a seguito della fusione con la Chrysler) a Termini Imerese verrà sempre ricordato come l’uomo che chiuse lo stabilimento, attivo dal 1970 al 2011 e con una riconversione industriale ancora tutta in divenire. O le cose sono più complicate? A rispondere è Roberto Mastrosimone, segretario regionale della Fiom Cgil. Che ha incontrato Marchionne «quattro o cinque volte» e che ne restituisce un ritratto sincero, a fronte della malattia che ha mandato in coma irreversibile uno degli uomini più potenti e discussi d’Italia degli ultimi 15 anni. E che è stato visto per anni in Sicilia prima come un possibile salvatore poi come la panacea di tutti i mali. 

«Per i lavoratori la chiusura dello stabilimento resta la parte più importante – dice Mastrosimone -, quella scelta naturalmente ha avuto a che fare con il futuro di tante famiglie e credo che sia inevitabile che avvenga perché ha stravolto la vita di migliaia di persone». Eppure al suo arrivo in Fiat le speranze su di lui erano tante. Anche e soprattutto dall’Isola. «La prima volta è venuto qui nel 2006, quando la Fiat aveva un’idea precisa su Termini – afferma il segretario Fiom – cioè quella di rilanciare lo stabilimento e di farlo diventare uno dei poli più importanti. È stato sia in città che nello stabilimento, ha incontrato le Rsu e i segretari territoriali. Ricordo benissimo quella volta e anche le successive riunioni, molte a Roma alla sede della Fiat e al Ministero: addirittura si parlava di cinquemila addetti tra diretto e indotto. In quelle occasioni venne però a mancare il sostegno politico. In Sicilia c’era il governo Cuffaro, che avrebbe dovuto contribuire attivamente al rilancio di questo territorio mettendo risorse importanti, ma non fu fatto. E anche il governo nazionale, presieduto allora da Romano Prodi, fece mancare il proprio appoggio. In quel quadro la Fiat fece allora un passo indietro e la scelta successiva fu di portare in Serbia quello stabilimento che si voleva fare a Termini».

Anche nella ricostruzione del sindacalista, dunque, si conferma il disegno di due Marchionne: quello prima della crisi economica del 2008, con un amministratore delegato sulla scia di Olivetti e dell’attenzione verso i lavoratori siciliani («una volta mi disse personalmente che avrebbe fatto di Termini uno degli stabilimenti più importanti dello scenario Fiat, avrebbe significato un cambiamento epocale») e quello relativo «a un’altra idea completamente diversa: molte delocalizzazioni, risanamento economico attraverso la finanziarizzazione dell’azienda». In ogni caso il bilancio palermitano è certamente negativo. «Già nel 2002 gli Agnelli avevano deciso di chiudere lo stabilimento: poi con le lotte e con l’iniziativa di tutti si scongiurò l’avvenimento. Quando Marchionne arrivò nel 2004 la Fiat versava in condizioni drammatiche. Ma la presenza di dipendenti dal suo arrivo a oggi si è comunque praticamente dimezzata. I lavoratori di Termini e di Avellino sono quelli che più hanno pagato l’idea di un’azienda globalizzata che guardava altrove e meno alla presenza del tessuto produttivo italiano. Ancora nel 2008 facemmo un accordo per produrre a Termini la nuova Lancia Y: un investimento di 550 milioni, di cui già 100 per fare la formazione ai lavoratori. Poi si decise di bloccare un investimento già partito, di cui circa il 20 per cento era già stato speso». 

Ciò avviene intorno a giugno del 2009: Fiat annuncia che la produzione della Lancia Y sarà fatta in Polonia e quella della Panda a Pomigliano. Sono i tempi in cui l’azienda automobilistica italiana prova ad acquisire l’Opel  – tentativo poi che cadrà nel vuoto, con Marchionne che allora guarda agli Usa e alla Chrysler che l’ex presidente Obama voleva a tutti i costi salvare dal fallimento -, quando l’amministratore delegato presenta il conto ai possibili investitori dicendo che avrebbe chiuso gli stabilimenti di Pomigliano e di Fiat. «Ci sono stati una serie di fattori che hanno inciso, anche a livello politico, ma certamente c’è stato un ripensamento da parte dell’azienda. A noi Marchionne ha tolto una vettura che ci era stata assegnata». La domanda che anche adesso in tanti si pongono è: ma non si sarebbe potuto allora prevedere un’uscita morbida e meno traumatica? «In un primo momento, a giugno del 2009, Marchionne ci disse che a Termini non si sarebbero più fatte auto ma altre cose che riguardano sempre il gruppo Fiat. Ma il 22 dicembre del 2009 ci ripensò e affermò: “noi chiudiamo e andiamo via, il problema sociale è del governo e non più nostro”. Lo disse in un incontro a Palazzo Chigi in cui io ero presente». 

Anche in questo caso Mastrosimone conferma le testimonianze rese da altre persone che hanno avuto a che fare a con Marchionne, ovvero un uomo deciso che riusciva a imporre la propria linea anche ai governi: l’ex premier Matteo Renzi, ad esempio, non ha mai fatto mistero di essersi ispirato a lui e in tanti sostengono che il Jobs Act sia figlio delle sue politiche aziendali. Ma di solo passato non si vive. Fca ormai ha poco di italiano, tanto che anche il nuovo amministratore delegato è l’inglese Michael Manley. La riconversione industriale di Termini è ancora possibile? E sì che ruolo potrebbe avere Fca? «Guardiamo avanti, chiediamo con forza che si possa tornare ad avere attenzione per questo stabilimento che ha contributo notevolmente allo sviluppo dell’azienda nell’Italia e nel mondo. Qui si sono prodotte la macchine storiche della Fiat: la 500, la 126, la Panda, la Punto. Noi possiamo dire che da qui sono passati i modelli che hanno fatto grande la Fiat. Vorremmo che si tornasse a parlare di cosa si può fare oggi. Ad esempio puntare sull’elettrico, che passa inevitabilmente dalla collaborazione con Fca visto che l’azienda ha dei ritardi in questo settore e Blutec è proprietaria del motore elettrico. Ci sono tutti i margini per rimettere in piedi un rapporto virtuoso coi lavoratori e col territorio». 

Ma non c’è il rischio che ancor di più i nuovi vertici guardino alla finanza e agli interessi globali e meno a quelli del territorio? «Può darsi, il rischio c’è anche se nel mondo Fiat al momento c’è ancora confusione e instabilità. Ma conta anche il ruolo del governo nel salvaguardare uno dei settori strategici del Paese, cioè il mondo dell’auto. Il ministro e vicepremier Di Maio parla in continuazione dell’auto elettrica, in Sicilia è venuto a fare campagna elettorale con l’auto elettrica e in tutti i comizi ne vantava le potenzialità. Ecco, qui ci siamo: Termini allora potrebbe diventare un polo di eccellenza per le vetture elettriche». 

Andrea Turco

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