Forse il palcoscenico più prestigioso per la presentazione di Mar del plata, l’ultimo romanzo dello scrittore e politico Claudio Fava, sarà il Salone internazionale del libro di Torino dove venerdì l’autore sarà ospite. Ma ci piace pensare che per questa storia di rugby e di violenza, di resistenza e di libertà, non ci sia set più adatto del Campo San Teodoro liberato di Librino, non ci siano spettatori più attenti dei ragazzi della squadra dei Briganti. Ecco perché Fava non ci ha pensato un attimo e ha raccolto l’invito dei giovani rugbisti, presentando Mar del Plata nella Club house Peppe Cunsolo. «C’è un filo che tiene insieme la vostra esperienza e la storia che racconto: è un gesto di libertà», spiega l’autore ai ragazzi appena usciti dalla doccia post allenamento.
Buenos Aires, 1978, è l’anno dei mondiali di calcio organizzati e vinti – dopo aver costretto il Perù a perdere 6-0 nell’ultima partita della seconda fase a gruppi – dall’Argentina. Bisogna vincere. Per distrarre l’opinione pubblica mondiale da quello che avviene nel Paese. Lo impone il regime dei generali, lo vuole il dittatore Jorge Rafael Videla che da due anni, dopo un colpo di stato, governa con il terrore l’Argentina. A Mar del Plata, grosso centro della provincia di Buenos Aires, un gruppo di ragazzi gioca nella locale squadra di rugby. «Giovani come voi – sottolinea Fava – Chi studia, chi lavora, nessun militante politico. Lo sport, allora come oggi, è un’isola felice che ti tiene fuori dalla miseria».
La quiete viene interrotta dall’uccisione di uno dei giocatori, Javier, ripescato nelle acqua del Rio de la Plata con un buco in testa e le mani legate con il fil di ferro. La domenica successiva la squadra chiede di ricordarlo con un minuto di silenzio. Sessanta secondi che però si allungano: diventano uno, cinque, dieci interminabili minuti durante i quali lo stadio si ammutolisce. Troppo in un Paese dove qualunque gesto di ribellione va soffocato. Una provocazione per il regime che, ad uno ad uno, fa scomparire ed uccide tutti i giocatori di Mar del Plata. Tranne uno, il capitano Raul. E’ lui che, vent’anni dopo, racconta al giornalista argentino Gustavo Veiga, questa storia, rimasta nell’oblio per tanto tempo. Ed è tramite Veiga, durante uno dei suoi numerosi viaggi nel paese sudamericano, che Fava ne viene a conoscenza.
«Una delle cose che più mi ha colpito è il senso di colpa dell’unico sopravvissuto, un po’ come Primo Levi – racconta il figlio di Pippo Fava – sopravvivere al male è sempre un peso insopportabile, il segno di una colpa che non esiste ma che ti covi dentro come un’ulcera». I Briganti ascoltano. «Il coraggio di dire no alla violenza che questi signori sanno usare come unico linguaggio unisce le vostre storie – continua Fava – Non c’è differenza in questo tra Videla e Santapaola. Pensarla fuori dal coro era un peccato imperdonabile». E soprattutto l’altissimo senso di dignità che i ragazzi di Mar del Plata conservarono fino alla fine. «Gli fu offerto di andarsene, di essere ospitati in Francia come rifugiati politici ma preferirono finire il campionato, sostituendo ad ogni compagno ucciso un ragazzo delle giovanili. Voi avete deciso di restare – sottolinea l’autore rivolgendosi al pubblico – per riprendervi qualcosa che vi spettava».
Raul è l’unico nome che il romanzo conserva così com’era. Quelli degli altri, vittime e carnefici, sono stati cambiati. Non la verità dei fatti. «Ho preferito raccontare i pensieri e i gesti di quei ragazzi che scelsero di restare e di morire – scrive Fava – Ho provato a riannodare i fili invisibili che legano vite lontane tra loro: i giovani agenti di Paolo Borsellino che rinunciano alle ferie per far da scorta al loro giudice, i giovani rubisti di Mar del Plata. Perché alla fine poco importa se quei ragazzi fossero argentini o siciliani. Importa come vissero. E come seppero dire di no».
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