Mafia, quei morti di serie B: Francesco Paolo Pipitone «Nessuno pensò a Cosa nostra, rivelò tutto un pentito»

«Per me era una storia chiusa. Si è riaperta dopo 12 anni, ma questa volta in direzione della verità». C’è serenità, ormai, nelle parole e nel volto di Anna Maria, mentre racconta di suo padre, Francesco Paolo Pipitone. Nasce ad Altofonte, luogo a cui resterà per sempre legato e dove scopre la passione della terra (la sua è una famiglia che vive soprattutto del lavoro nei campi). Ma anche per gli studi, che gli permettono faticosamente di affrancarsi e di arricchire enormemente il suo bagaglio culturale. Un percorso di sacrifici e dedizione che, una volta adulto, nel 1980 lo porterà, di nuovo ad Altofonte, a ricoprire il ruolo di presidente della banca rurale e artigiana del paese. È lì che, undici anni dopo, morirà, ucciso durante una rapina sfociata nel sangue. Sono le 13:20 quando due uomini armati, arrampicandosi su una scala a pioli usata dalla Sip, fanno irruzione nell’istituto di credito: Pipitone non si tira indietro e si scaglia contro il primo intruso che si ritrova davanti. Ma durante la colluttazione l’altro complice inizia a sparare, colpendo a morte il direttore, ma prima uccidendo accidentalmente anche il proprio compare, per poi darsi alla fuga.

Solo un mese prima, nella stessa banca, c’era stata un’altra irruzione, un’altra rapina. Quel giorno però Pipitone non era lì. Ma c’è il 2 aprile, quando il suo tentativo di fermare i due malviventi gli costa la vita. Tragica vittima di una rapina finita male. È questo che pensano tutti, da chi indaga alla sua famiglia. Almeno fino al 2002, quando le figlie trovano nella cassetta delle lettere una convocazione da parte della procura. È urgente, qualcosa di importante è successo, c’è un pentito che ha parlato di quell’omicidio, si chiama Giovanni Brusca. Fedelissimo di Totò Riina, coinvolto in moltissime delle pagine più cruente della storia criminale palermitana degli anni ’80 e ’90, è uno dei boss della famiglia mafiosa di Altofonte, il mandamento è quello di San Giuseppe Jato. Quella stessa Altofonte in cui lavora Pipitone, e in cui poi viene ucciso. Un caso? Sembra di no. È proprio Brusca che, durante la sua collaborazione, racconta i retroscena di alcuni omicidi. E tra questi c’è anche quello del 2 aprile 1991.

Non è Cosa nostra la mandante di quel delitto. Ma è Cosa nostra che dà il suo benestare ai due rapinatori per assaltare la banca del paese. Diventando in questo modo complice di quella morte. Non accade nulla, ad Altofonte come altrove, senza che Cosa nostra non lo sappia, senza che non abbia dato il suo permesso. Ci vogliono dodici anni per sapere che c’è l’impronta della mafia dietro l’intera vicenda, e le parole di un pentito. Che viene, poi, condannato a tredici anni in via definitiva nel 2008 insieme a Michele Traina, affiliato alla famiglia mafiosa di Santa Maria di Gesù, che deve scontare 30 anni. «Teneva sempre in tasca delle caramelle, stava smettendo di fumare e quelle gli servivano come diversivo…se n’è andato dopo il mio quarto compleanno, l’ultimo passato insieme», il ricordo di una delle nipoti, Maria Luisa, immortalato in un documentario dedicato a Pipitone. Ed è sempre a lui che, solo pochi giorni fa, è stata intitolata la cucina sociale di via Funnuta a Ciaculli, dove è appena ripartito il progetto MandarInArte, gestito dalle associazioni Acunamatata e Solidaria.

Silvia Buffa

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