Sono dieci le misure cautelari emesse dal tribunale di Palermo nell’ambito di un’indagine della Dda, coordinata dal procuratore aggiunto Salvatore De Luca. Colpite le famiglie mafiose di San Giuseppe Jato e San Cipirello. Tra i reati contestati ci sono anche estorsioni, spaccio di stupefacenti e accesso abusivo a sistema informatico. L’indagine, iniziata a febbraio 2017 e protrattasi fino a novembre 2019, ha fatto luce sulla ricostituzione del mandamento jatino dopo i quattro blitz che hanno colpito le cosche tra il 2013 e il 2017.
Dal lavoro dei carabinieri è emerso che Cosa nostra ha proseguito nelle proprie attività illecite, controllando il territorio tramite l’imposizione del pizzo, i cui proventi andavano alle famiglie dei detenuti. Tra le vittime delle estorsioni anche il gestore di un centro scommesse che, a Pasqua 2017, ha pagato somme di denaro per sostenere la famiglia mafiosa. Monitorati anche i movimenti nel settore imprenditoriale, e nello specifico l’acquisizione di appalti pubblici nel settore edilizio da parte di imprese ritenute vicini alla mafia. Nell’indagine è finita anche la cessione di hashish tra San Giuseppe Jato e Palermo.
Tra gli arrestati ci sono Calogero Alamia e Maurizio Licari. Il primo è nipote di Antonino Alamia, il cassiere della famiglia di San Giuseppe Jato. L’uomo è accusato di avere coordinato la cosca mantenendo contatti con Ignazio Bruno, il capomandamento finito in carcere nell’ambito dell’operazione Quattro Zero, e il suo braccio destro Vincenzo Simonetti. Le altre persone accusate di far parte dell’associazione mafiosa sono Nicusor Tinjala, Giuseppe Bommarito – già condannato in via definitiva a oltre dieci anni a metà anni Duemila – e i figli Calogero e Giuseppe Antonio. Indagato, ma senza accusa di associazione mafiosa, anche Massimiliano Giangrande.
Coinvolto nell’inchiesta anche l‘ex comandante dei vigili urbani di San Giuseppe Jato. L’uomo, oggi in pensione, è accusato di avere effettuato accessi abusivi al sistema informativo dell’Aci per verificare l’intestatario della targa di un veiciolo da cui erano stati scaricati rifiuti edili. Ciò per favorire l’indagato Giuseppe Antonio Bommarito consentendogli di ripristinare i luoghi, nella consapevolezza che la scena era stata ripresa dalle telecamere di sorveglianza del Comune.
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