«La Sicilia era come una torta, ogni famiglia mafiosa aveva la sua fetta». Cinque mesi dopo essere scampato a un attentato, Giuseppe Antoci mantiene ferma la motivazione di andare avanti nella battaglia contro gli appetiti della criminalità organizzata sul demanio forestale. Un sistema che – assicura – non riguarda soltanto il Parco dei Nebrodi, di cui è presidente, ma l’intera Isola. «Un affare da cinque miliardi di euro di fondi comunitari – spiega a MeridioNews -. Abbiamo scoperchiato un sistema che aveva trovato nel demanio un business paragonabile a quello della droga».
Secondo gli inquirenti che indagano sull’agguato avvenuto la notte del 17 maggio, e ancora prima sulle ripetute minacce rivoltegli prima di passare ai fatti, starebbe proprio nell’impegno di Antoci a fare chiarezza sulle concessioni demaniali la decisione di farlo fuori. Con un’azione vecchio stampo, di quelle che in Sicilia non si vedevano da decenni: strada sbarrata – quella tra Cesarò e San Fratello -, auto costretta a fermarsi e fuoco aperto. Un assalto che non ha avuto conseguenze soltanto per il pronto intervento della scorta e di un’auto della polizia che seguiva Antoci per caso. «Con il protocollo di legalità ideato insieme alla prefettura di Messina abbiamo messo con le spalle al muro gli affittuari legati alle famiglie mafiose – prosegue il presidente del Parco – e da qualche settimana abbiamo esteso quelle misure a tutte le province siciliane». Perché a interessarsi ai boschi non è soltanto la mafia dei Nebrodi. «Sarebbe stupido pensarlo. Io mi spingo oltre: non è solo Cosa nostra a fare affari con il demanio. A meno che non vogliamo pensare che la ‘ndrangheta in Calabria e la camorra in Campania restino a guardare».
Cardini del protocollo sono l’indizione di gare pubbliche per l’affidamento dei terreni e la richiesta di certificazione antimafia anche per concessione inferiori ai 150mila euro. «Così facendo abbiamo intralciato gli affari di chi agiva indisturbato, facendo leva sulla propria pericolosità – specifica Antoci -. Infatti, era pratica consolidata che le società vicine a esponenti mafiosi si trovassero a essere le uniche ad avanzare pretese sui terreni. Gli altri non si facevano avanti per paura».
Tornando ai giorni dell’attentato, il presidente del Parco ammette che da allora la quotidianità è cambiata. «Ero già sotto protezione, ma oggi la vita è senz’altro più difficile, per me e la mia famiglia, ma si va avanti – assicura -. Sui Nebrodi i reparti speciali dei carabinieri continuano a setacciare il territorio, ma sono tutte le forze dell’ordine a essere impegnate». Anche se di minacce concrete da quella notte non ne sono più arrivate. «Si è trattato di progetto di attentato che ha necessitato senz’altro del benestare dei vertici di Cosa nostra – continua Antoci – e davanti alla risposta dello Stato è normale che oggi anche loro stiano attenti ai passi da fare, ma non dobbiamo abbassare l’attenzione».
Poche parole sulle indagini. «Non posso dire nulla, ma passi avanti in questi cinque mesi ne sono stati fatti. Speriamo che si possa arrivare innanzitutto a rintracciare gli autori materiali, per poi pensare ai mandanti». Quello su cui invece si può dire di più è l’impegno che dovrà vedere protagonisti i singoli Comuni, gli enti che gestiscono direttamente le concessioni. «Se qualche sindaco pensa di poter far orecchie da mercante, evitando di fare i dovuti approfondimenti, deve sapere – sottolinea Antoci – che nel caso di illeciti il rischio non è più quello di essere accusati di abuso d’ufficio ma di concorso esterno in associazione mafiosa». Messaggio di certo non destinato a Fabio Venezia, il sindaco di Troina che è stato il primo ad annullare le concessioni in mano a società infiltrate. «Vorrei ce ne fossero di più come lui», ammette Antoci. Che dedica l’ultimo pensiero al presidente della Regione, Rosario Crocetta. «Mi è stato vicino ed è stato il primo a volere l’estensione del protocollo di legalità. Ha mostrato coraggio».
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