«Non venire a Balatelle, Vittorio. Non venire. Vatti a sistemare, mi hai capito». «Come sto tranquillo, ‘mbare? Cosa stai dicendo?». «No, ‘mbare, ascolta a me. Vatti a sistemare». È il 15 maggio 2013 e Vittorio Fiorenza si trova in via Passo Gravina. Da casa sua, nella zona di Balatelle a San Giovanni Galermo, lo chiamano in tanti: dall’abitazione sarebbero passati Arturo e Vincenzo Mirenda, armati di pistola, intenzionati a ucciderlo. Fiorenza reagisce pacatamente: «Stai tranquillo – risponde all’amico che lo chiama, dopo avere capito l’argomento – Me l’annacano». Tutt’e tre sono indagati nell’operazione Dokss della procura di Catania. Sono accusati, tra le altre cose, di associazione a delinquere di stampo mafioso nell’ambito di un’inchiesta che ha fatto stringere le manette attorno ai polsi di quello che è ritenuto essere il cuore pulsante della famiglia Santapaola-Ercolano nel quartiere a Nord di Catania.
La questione è semplice: Salvatore Fiore, secondo la procura a capo del gruppo di San Giovanni Galermo, era stato arrestato da poco e Vittorio Fiorenza sarebbe stato un suo fedelissimo. Ma al vertice della cosca, dopo Fiore, ci sarebbe stato Salvatore Gurrieri (‘u puffu, all’epoca agli arresti domiciliari) a cui erano molto vicini – invece – i fratelli Mirenda. Un avvicendamento che avrebbe potuto essere indolore se Fiorenza e i Mirenda non si fossero incontrati all’Etna bar di via Galermo, cominciando una discussione sfociata in una rissa. «Gli ho dato coppa a Turi sciara! (Arturo Mirenda, ndr)», spiega Fiorenza alla moglie, al telefono, quel giorno stesso. «Ma chi, tu?», domanda perplessa la donna. «Sì – ammette l’uomo – Mi ha buttato mani all’Etna bar, e non gli butto mani io? Fammi capire». Dallo scontro alle minacce passa poco. «Lui è venuto qua – racconta la moglie, sveglia da poco – E ha chiamato “Vittorio”. Poi se n’è andato… Tutto che ha sghiddato…».
La telefonata successiva Vittorio Fiorenza la riceve dalla moglie di Salvatore Fiore, che a Balatelle gestisce un panificio. «Ascoltami, sulla vita dei miei figli, non ti fare vedere», gli dice lei, preoccupata. «Ohu – continua la donna – ce l’ha nelle mani. È stato qui in giro, con il coso nelle mani». Il «coso» sarebbe «il ferro», cioè la pistola. Che peraltro lo stesso Fiorenza avrebbe lasciato alcuni giorni prima a casa di Arturo Mirenda («L’ho lasciata a casa sua», racconta al fratello. «Pure bestia sei», commenta il parente), venendo quindi minacciato con un’arma che – in realtà – avrebbe dovuto essere sua. «Ma che devono fare?», replica quello. «Ascoltami, levati perché sono fuori fase. Non connettono più, sono scimuniti». La risposta, di nuovo, è di quelle che non ammettono seguito: «Me l’annacano». Una calma che non viene turbata neanche quando, a nuovo squillo del cellulare, la voce dall’altra parte della cornetta è quella poco conciliante di Arturo Mirenda: «Infamone, dove sei?», gli chiede in prima battuta. «Turi, parla bene, Turi», dice Vittorio Fiorenza. «Ti rompo le corna, ti ammazzo».
La conversazione tra i due, il minacciato e il minacciatore, dura un paio di minuti e non è particolarmente varia. In un botta e risposta fatto di undici scambi in tutto, per ben sette volte l’unica risposta di Fiorenza è «Parla bene». Mentre Mirenda, con più fantasia, all’«infamone» aggiunge anche «cornuto», «sbirro» e «carogna». «E non siamo tutt’e due gli stessi?», commenta l’eventuale vittima, prima che l’altro gli chiuda il telefono in faccia. Passano un paio di minuti e il cellulare squilla ancora. Stavolta è la voce di un amico. «Vedi che c’è Enzo e coso (Arturo Mirenda, ndr) che ti stanno cercando come i pazzi», gli dice. «Me la sucano tutt’e due», è la variazione lessicale. In realtà, a dispetto di una ostentata tranquillità, Fiorenza ci metterebbe poco a cercare di andare a sistemarsi. Vale a dire, secondo gli investigatori, a cercare la protezione di un altro clan mafioso. Quello prescelto sarebbero i Mazzei. A San Giovanni Galermo, precisano gli inquirenti, in quel momento vive il pregiudicato Lucio Stella, presunto esponente di spicco dei Carcagnusi. È da lui che il fratello e la moglie di Fiorenza sperano, pare con successo, di trovare conforto.
Alcune ore dopo, poco prima di pranzo, gli animi si calmano. Vittorio Fiorenza manda il fratello da Salvatore Gurrieri, ai domiciliari, per capire se la frattura con i Mirenda può ricomporsi. La tentata riappacificazione avviene tramite cellulare. «Turi – afferma l’uomo braccato, rivolgendosi a Gurrieri – eravamo rimasti che sopercherie non ne doveva fare nessuno. Sulla vita dei miei figli…». Il racconto di quanto avvenuto quella mattina, prima dei tentati agguati, è concitato: Fiorenza, nella sua ricostruzione, incontra Arturo Mirenda all’Etna bar, lo saluta e gli dice: «La prossima volta, anziché andarvene a lamentare, le cose ditemele in faccia». L’oggetto della conversazione non è chiaro. E anche la replica di Mirenda viene sintetizzata, dal suo antagonista, con un «Ah, io, ‘u cani, ‘a iatta…». Le giustificazioni, però, a Gurrieri non basterebbero. «Su di te io non devo fare nulla completamente», afferma Salvatore Gurrieri. «Allora faccio un’altra strada». «Fatti la tua strada, Vittorio, dai, e poi mi fai sapere».
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