«Le parentele dei consiglieri comunali con elementi di Cosa nostra non bastano». Lo ha ribadito a più riprese la prefetta Maria Guia Federico, appellandosi alle sentenze del Consiglio di Stato, durante la sua audizione a palazzo San Macuto, sede della commissione parlamentare antimafia. Per la rappresentante statale, registrata dai microfoni di Radio Radicale, non ci sarebbero le condizioni per avanzare la richiesta di nominare una commissione d’accesso agli atti al Comune di Catania e verificare se l’attività amministrativa ha subito condizionamenti mafiosi o meno. Nel caso del capoluogo etneo mancano indizi «concreti, rilevanti e univoci». Per rafforzare la sua tesi Federico ha anche spiegato cosa ha fatto la prefettura dopo la relazione della commissione regionale antimafia. «Con tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine si è deciso di effettuare un monitoraggio per reperire ulteriori notizie». Un controllo a 360 gradi dei politici e dei loro «parenti fino alla terza generazione» confluito in una serie di schede informative che però non hanno fatto emergere i profili ritenuti necessari per la nomina di una commissione.
La disamina della Prefetta in Antimafia non ha sempre convinto i suoi interlocutori. Dal vicepresidente Claudio Fava alla presidente Rosy Bindi. «Lei non deve sciogliere il Comune ma fare gli accertamenti opportuni. Non spetta al prefetto trovare elementi concreti, univoci e rilevanti», incalza Fava. Per rafforzare la sua tesi il parlamentare etneo cita l’esempio del Comune di Brescello, sciolto per mafia nel 2016 dopo tre mesi di verifiche da parte dei funzionari ministeriali. «Non c’era nemmeno una denuncia. In quel caso è bastata un’intervista del sindaco». «Alcuni Comuni sono stati sciolti senza che prima vi fossero indagini», gli fa eco Bindi. La prefetta etnea tuttavia conferma la sua linea lanciando un monito ad eventuali ripercussioni da parte del Comune di Catania: «Il prefetto si assume la responsabilità dell’atto e di eventuali danni in prima persona. L’ente può ricorrere al tribunale amministrativo e al Consiglio di giustizia».
Federico durante la sua audizione torna anche al 2013. Anno delle amministrative in città che sancirono la vittoria di Enzo Bianco e l’elezione dei consiglieri finiti, a distanza di mesi, sotto la lente d’ingrandimento. «Oggi manca l’attualità del problema. Perché si chiede adesso la commissione e non nel 2013?», si domanda. Interrogativo a cui risponde direttamente la presidente Bindi: «A un certo punto si viene a conoscenza di fatti». Per Federico però «i legami di parentela non li sapeva nessuno e sono saltati fuori da una lettera anonima in un momento politico particolare, ecco non voglio aggiungere altro». Affermazioni che riscaldano i torni del senatore Mario Giarusso e dello stesso Fava sulle presunte mancanze di chi era chiamato a vigilare.
In mezzo a tante parole la prefetta, su precisa richiesta della presidente Bindi, in un primo momento, non esclude l’accesso agli atti nella circoscrizione di Librino. Successivamente quando però la presidente torna sulla questione e ribadisce il suo invito, Federico sembra fare marcia indietro e sottolinea nuovamente la mancanza di indizi. «Serve la delega del Ministro dell’Interno e devo dimostrare che sia qualche motivo che non può essere la parentela che, come dicono le sentenze del Consiglio di Stato, non basta».
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