Una macchina scura, nel cuore della notte, raggiunge un ovile in contrada Castellitto, a Ramacca. Dentro ci sono «quattro ragazzi» intenzionati a consegnare dei soldi a un pastore. Quell’uomo, secondo la ricostruzione degli investigatori, corrisponde al profilo di Antonino Navarria, finito indagato e arrestato nell’ambito dell’inchiesta che nei giorni scorsi ha portato all’operazione Gisella. Il suo è stato uno dei nomi storici della sanguinaria mafia targata Giuseppe Pulvirenti. Perché Navarria non è soltanto un 59enne con alle spalle la militanza nella cosca del Malpassoto. Per 16 anni è stato anche uno dei principali pentiti della mafia etnea. Almeno fino al 2008, quando ha deciso di abbandonare la collaborazione con i magistrati. Nel presente di u pupiddu – soprannome con cui è conosciuto nell’ambiente criminale – ci sarebbe la vicinanza a un clan diverso, quello dei Nicotra, e un business legato ai veicoli agricoli. Di questo sono convinti i magistrati della procura di Catania, che lo accusano di furto e ricettazione con l’aggravante di avere favorito il clan dei Tuppi.
Originario di Nicolosi, Navarria venne arrestato nel 1992. Insieme a decine di mammasantissima e soldati del Malpassotu nel lungo elenco di nomi del blitz Aria pulita. Operazione a cui sfuggi, però, proprio il capomafia Pulvirenti. Navarria si pentirà qualche mese dopo aprendo la strada a una lunga stagione di collaborazione con l’autorità giudiziaria. In questo percorso, però, non mancano gli aneddoti. Nel 1993, venne arrestato nella strada che collega Belpasso a Nicolosi. Dopo un inseguimento con la polizia, con tanto di colpi di pistola sparati per bloccare la sua Fiat 126.
Il romanzo criminale recente rimanda all’ovile nelle campagne del calatino. Dove, a febbraio 2017, sarebbe finito un trattore rubato in contrada Monaco, a Ramacca. Un furto che per l’ala del clan di Motta Sant’Anastasia avrebbe comportato non pochi problemi a causa della rottura del pedale della frizione e di un malfunzionamento della batteria di avviamento. Alla fine però l’operazione, condotta per l’accusa da Daniele Distefano con la complicità di Gaetano Indelicato e Filippo Buzza, viene portata a termine. E a essere al corrente sarebbe stato anche l’appuntato dei carabinieri Gianfranco Carpino, finito in carcere con la pesante accusa di corruzione. «Comunque ieri tutto a posto, ieri ci siamo assicurati», raccontava Buzza al militare in una telefonata finita intercettata.
La rivendita del trattore, però, avrebbe comportato tempi più lunghi del previsto, facendo spazientire l’ex pentito Navarria: «Fai conto che si è bagnato», avvertiva Distefano, che rispondeva: «Nino non lo dobbiamo fare bagnare perché è la nostra salvezza». In mezzo a questa storia c’è anche il presunto ruolo dei mediatori, tra cui l’altro indagato Rosario Cantali, originario di Maniace e pronto nel tentativo di rivendere il mezzo a un acquirente di Bronte. Alla fine, però, il trattore torna al primo proprietario con un cavallo di ritorno. L’imprenditore agricolo, dopo qualche tentennamento, ammette davanti agli inquirenti di avere pagato 4000 euro per la restituzione.
Un altro trattore sarebbe stato rubato dal clan nelle campagne di Regalbuto. In questo episodio è lo stesso Navarria, secondo gli inquirenti, a individuare l’obiettivo. «È un’astronave!!! Tutto automatico», racconta Distefano in un’intercettazione. «Qua ci devono dare 10mila euro, solo le ruote 10mila euro». Qualche giorno dopo, però, il mezzo viene trovato dai carabinieri nel territorio di Belpasso, forse grazie alla soffiata di un pastore. Nel clan scatta il panico e le cimici registrano tutto: «Non andare più in nessun posto perché là ci sono gli amici», sono le parole che Distefano pronuncia al telefono. Aggiungendo come il compratore fosse in procinto di «scendere» per andare a prendersi quel mezzo rubato. A poco sarebbe servito anche un dispositivo per disturbare le frequenze gps: «Il jammer lo premevo – raccontava Distefano a un complice – per come mi ha detto quello che me l’ha venduto». Per questo capo d’accusa però, almeno secondo il giudice che firma l’ordinanza di custodia cautelare, non ci sarebbero sufficienti prove nei confronti dell’ex pentito Navarria.
Di certo c’è che la fortuna non accompagnava le operazioni illecite dei Tuppi. Perché anche per un terzo episodio di furto alla fine l’obiettivo non viene raggiunto. Il trattore viene recuperato «dai puffi», cioè i carabinieri. Salta così, secondo la ricostruzione degli inquirenti, la trattativa con Giovanni Aprile, originario di Portopalo, in provincia di Siracusa. L’uomo, non indagato in questa inchiesta, compare però negli atti perché intercettato con l’indagato Filippo Buzza. «Se lo stava comprando lui, già era per strada», spiegava proprio Buzza all’appuntato dei carabinieri. Un cognome, quello di Aprile, che rimanda a uno dei tre fratelli – gli altri sono Giuseppe e Claudio – ritenuti dagli inquirenti come i luogotenenti del boss di Pachino Salvatore Giuliano. Finiti in manette l’estate scorsa nell’ambito dell’operazione Araba fenice. Inchiesta nei cui atti compaiono decine di volte i cognomi di Buzza e Distefano. Entrambi citati per i presunti affari con i carusi di Portopalo nel settore della ricettazione.
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