Mafia, il maneggio sequestrato e tentativi di riprenderlo Minacce al curatore: «Sei un uomo morto». Lui resiste

Resistere alle minacce di un uomo ritenuto vicino al clan barcellonese di Cosa Nostra, tra i più sanguinari e violenti. È quanto ha fatto un curatore giudiziario chiamato a gestire un bene sequestrato in un paese di quattromila anime della costa tirrenica, Piraino. Ha resistito per oltre due anni, non senza momenti di sconforto e difficoltà, Franco Cambria, dal 2014 gestore del maneggio che un tempo fu di proprietà di Tindaro Marino, tornato in carcere nei giorni scorsi perché accusato di estorsione aggravata dal metodo mafioso nell’operazione Gotha 7, l’ultima puntata della lunga battaglia delle istituzioni contro il clan di Barcellona Pozzo di Gotto.

Nelle 800 pagine dell’ordinanza del gip Monica Marino trova spazio la storia del maneggio sequestrato il 24 giugno 2011, nel momento in cui Marino viene arrestato per la prima volta con l’accusa di concorso esterno all’associazione barcellonese, interposizione fittizia di beni ed estorsione. L’uomo è stato  condannato in via definitiva per il concorso esterno, mentre resta pendente in Appello a Reggio Calabria solo un altro capo di imputazione. Cambria diventa custode della struttura di contrada Salina il 28 luglio del 2014 e da quel momento, come racconta alla polizia, inizia per lui un incubo a causa delle minacce di Marino, nel frattempo tornato in libertà, e dei suoi emissari, risoluti a tornare padroni in quella che considerano ancora casa loro. 

A Cambria e alla sua associazione di volontari, Io amo l’equitazione, vengono affidati i cavalli e gli altri animali sequestrati dal commissariato di Sant’Agata di Militello. Il gruppo diventa riferimento per molti bambini, grazie alle attività ludiche ed educative organizzate. Ma, stando al suo racconto alle forze dell’ordine, dal momento in cui gli viene affidato il maneggio, viene minacciato da Tindaro Marino, dal figlio Giuseppe e da Tindaro Lena, considerato uomo di fiducia della famiglia Marino e arrestato due giorni fa. Ad agosto del 2014, ad esempio, il custode giudiziario sarebbe stato prelevato dal maneggio e accompagnato, a bordo di una Peugeot azzurra guidata da Giuseppe Marino, nell’abitazione di famiglia a Gioiosa Marea. 

Qui ad attenderlo ci sarebbe stato Tindaro Marino in persona che, si legge nelle carte, «con vero e proprio atteggiamento mafioso, alludendo a conseguenze gravi nei suoi confronti, gli aveva ordinato di “salvaguardare i suoi interessi” nella gestione del maneggio; solo in quel modo Cambria avrebbe potuto godere di tranquillità». Le minacce si fanno più pressanti: «Appena iò nesciu di stu burdellu, a iddu u tagliu cu cuteddu di tavula chi avi i denti!». Come riferito da Cambria, Marino gli ricorda «di avere “amici mafiosi disposti a tutto”, anche “a fare fuori qualcuno”, assicurandogli che avrebbero agito al momento opportuno, con un semplice “schiocco di dita”». 

Marino, in quella circostanza, avrebbe indicato come suo «discepolo» e «braccio armato» Tindaro Lena. Quest’ultimo avrebbe impartito a Cambria tutte le direttive per la gestione del maneggio, facendogli presente che, se non avesse obbedito, avrebbe rischiato la vita. A ottobre del 2014 – quando il custode del maneggio si rifiuta di far accedere alla struttura Tindaro Lena, che sostiene di dover iniziare la raccolta delle olive per conto di Tindaro Marino – viene minacciato, di essersi «messo in un bel guaio» e che «gli sarebbe finita male». Cominciano quindi numerosi danneggiamenti al maneggio, tutti episodi denunciati ai carabinieri. 

Il 28 febbraio del 2016, in occasione di una manifestazione che si svolge nella struttura, Cambria si accorge della presenza di Lena e lo invita ad andarsene. «Lena – si legge nell’ordinanza – con fare mafioso, gli aveva risposto: “Allora non hai capito un cazzo, tu sei un uomo morto“». Meno di un mese dopo, si verifica un’altra intimidazione. Anche in questo caso Lena, invitato da Cambria a lasciare il maneggio, replica a muso duro: «Tu a nesciri subitu da stu maneggio, altrimenti assaggi u chiummu. Hai tempu du iorna, mi ti ricogghi i pupa e ti nn’vai». Minacce che turbano profondamente Cambria, al punto da fargli pensare di lasciare tutto, «per non rischiare la vita mia o della mia compagna – riferisce agli investigatori che raccolgono la sua denuncia -. I fatti di cronaca parlano chiaro – continua – e oggi mi trovo ad avere di fronte dei mafiosi che, dopo un anno circa di intimidazioni, non hanno raggiunto l’obiettivo e stanno maturando l’idea di farmi fuori. Temo seriamente per l’incolumità mia e dei miei cari». Qualche mese dopo, nel luglio del 2016, arriva un ordine di sfratto dal Tribunale di Messina, a causa del rischio idrogeologico a cui è soggetto il maneggio. Provvedimento che diventa esecutivo nel febbraio del 2017.

Simona Arena

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