Del gioielliere in pensione che alla luce del sole alternava passeggiate e incontri coi padrini di mezza Palermo e provincia si è già detto molto. L’80enne Settimo Mineo conduceva da tempo una vita di facciata, che aveva retto piuttosto bene davanti ai commercianti di corso Tukory persino alla luce dei suoi numerosi precedenti per mafia, di cui molti fino a una settimana fa sembravano essere all’oscuro. Ma insieme a lui, nelle carte dell’indagine, ci sono anche insospettabili, o forse neppure troppo, palermitani comuni. Sono parrucchieri, imprenditori impegnati nella gestione di birroteche nel cuore della città, commercianti di vino e persino latitanti in procinto di gestire un impianto di distribuzione di carburanti. Vite parallele in tutti i sensi, che se non fosse stato per il blitz messo a segno martedì non avrebbero insospettito nessuno, forse.
Come Marco La Rosa. Per gli inquirenti sarebbe un affiliato alla famiglia mafiosa di corso Calatafimi, mentre per tutti gli altri, specie i suoi clienti, è un comunissimo parrucchiere. Che all’occorrenza metteva a disposizione di boss e padrini una stanza riservata del suo negozio, il solarium, dove avevano luogo appuntamenti e incontri, che a volte lui stesso si sarebbe premurato di organizzare attraverso una serie di telefonate. Molto sarebbe avvenuto proprio lì, nella sua attività, davanti ai normali clienti ignari di ogni cosa. Ma chissà se qualcuno avrà mai notato quel via vai di persone – quasi sempre le stesse facce – che non venivano esattamente a tagliare barba e capelli. «Minchia cosazza inutile», commenta a caldo un ex cliente della parrucchieria. «Per ste cose davvero divento una bestia, hai l’attività e frequenti sta gente?» si domanda, alludendo ai nomi finiti sui giornali, quelli dei presunti padrini delle famiglie che fanno capo al mandamento mafioso di Pagliarelli. Mentre il cruccio maggiore, a chi rimane, adesso sembra essere uno solo: «E ora dove vado a tagliarmeli i capelli?».
E poi c’è Giovanni Salvatore Migliore, presunto affiliato alla famiglia di Belmonte Mezzagno, che si era reinventato un posto nel commercio di alcuni vini. O, per essere più precisi, nella loro imposizione: «Non ti devi seccare, leva questo…che è? Stai vendendo altre cose, qua devono campare altri cristiani, che è? Senza che!». Si sforza di mantenere la calma, mentre discute con qualcuno, non sapendo di essere intercettato. È il 27 settembre 2014, e se ne sta fermo immobile a fissare un negozio di frutta dove, a detta del suo interlocutore, il gestore riuscirebbe a vendere «cento bottiglie a settimana». Ma riuscire bene in un affare senza avere il patrocinio o il lasciapassare della mafia, si sa, non è consigliabile. Quelle cifre ingolosiscono il presunto boss, che ci tiene a rassicurare l’altro replicando che lui riuscirà a fare meglio. Ma col vino che dice lui, quello della cantina Balharm. «Già cento cartoni, cento bottiglie sono dieci cartoni di vino… nove cartoni di vino a settimana – dice, facendo un rapido calcolo dei cartoni da piazzare e degli introiti del negozio di frutta – Cento bottiglie sono dieci… undici cartoni sono… uno ci dice: “A quanto te lo dà? Io te lo do a due e quaranta, e li guadagni tu altri dieci centesimi suviecchiu”».
Ma l’elenco continua e tra gli insospettabili (ma, visti i precedenti, fino a un certo punto) ci sarebbe pure Filippo Salvatore Bisconti, non un boss qualunque, visto che adesso dovrà rispondere di essere stato, per i magistrati, il capo del mandamento di Belmonte Mezzagno-Misilmeri. Nella vita di tutti giorni si occupava di un locale nel cuore di Palermo, una birroteca ufficialmente gestita dalle figlie. Un posto molto noto in città, da dove sono passate carovane di clienti e di band che hanno allietato le serate. Ma non ha sempre fatto questo, per non dare nell’occhio. «Siccome Filippo è un personaggio storico dentro Cosa nostra, lo conoscono tutti, ha una ditta edile, fa lavori, perciò dico ha molta possibilità di approccio con i costruttori», raccontava solo nove mesi il collaboratore di giustizia Sergio Macaluso, parlando di lui coi magistrati. Non una figura qualunque, quindi. E qualcuno nel tempo, malgrado le svariate attività di copertura, pare essersi accorto che Bisconti potesse essere un personaggio equivoco, «in odor di mafia», dicono oggi. Sospetto che aveva infatti portato qualcuno a prendere le distanze da lui e anche da quel locale in centro città.
Qualcun altro, invece, si è dovuto impegnare un po’ di più per riuscire a crearsi una vita di facciata, fatta di routine e di un lavoro normale. Come Filippo Annatelli, ritenuto dai magistrati il capo della famiglia di corso Calatafimi: come molti altri coinvolti nel blitz di martedì scorso, anche lui vanta nel suo curriculum precedenti di un certo peso e legami con personaggi del calibro di Antonino Rotolo e Giovanni Nicchi. Scarcerato il 24 luglio 2015, viene rimesso in libertà con la sorveglianza speciale per tre anni. Una misura però che, violata più e più volte, non gli impedisce di riprendere subito le vecchie abitudini, complice anche una vita parallela a quella dedita all’organizzazione mafiosa, una quotidianità di facciata dietro la quale nascondersi all’occorrenza. «Intanto c’è il discorso… che si deve aprire una società con un capitale srl da diecimila euro…u travagghiu è di un milione e mezzo di euro», dice la mattina del 18 gennaio scorso, intercettato dagli investigatori mentre si trova proprio dentro al solarium di La Rosa, nella sua parrucchieria.
Il progetto è quello di costituire una società a responsabilità limitata con un capitale di diecimila euro. Una società di facciata di cui avrebbe dovuto fare parte anche un certo Rosario Montagna, arrestato lo scorso gennaio con l’accusa di essere tra i responsabili di una truffa sulla benzina, intestandosela fittiziamente e deputata alla gestione di fatto da parte di Settimo Mineo e altri presunti affiliati, tra cui lo stesso Annatelli, di un impianto di distribuzione di carburanti. Sfuggito al blitz dello scorso dicembre, era latitante. Una condizione che rendeva tutto decisamente più delicato, ma che sembra non gli abbia comunque impedito di andare in giro tranquillamente. Almeno fino a martedì.
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