Mafia e massoneria, i risultati dell’indagine Dalla latitanza di Provenzano a Castelvetrano

«Esisteva un terzo livello di soggetti in relazione direttamente con Bernardo Provenzano, all’epoca, che consentiva alla mafia di avere benefici a livello di informazione da forze dell’ordine, magistrati, servizi segreti. Informazioni di prim’ordine. A un terzo livello dove c’era di mezzo la massoneria». E lui, di entrambe le organizzazioni pare intendersene. A parlare così infatti è il collaboratore di giustizia Francesco Campanella, uomo vicino al capomafia Nicola Mandalà il quale, per un certo periodo, curò la latitanza di Bernardo Provenzano. Campanella ha ammesso di aver militato in entrambe le associazioni. «La massoneria aveva importanza nella città di Palermo in termini di potere economico, politico e decisionale, quindi aveva senso che io stessi anche all’interno di questa organizzazione». Una frase, questa, riportata anche nella relazione finale della Commissione parlamentare antimafia, approvata all’unanimità e presentata oggi dalla presidente Rosy Bindi. Un documento importante per conoscere i rapporti fra mafia e massoneria. «L’indagine – sottolinea la parlamentare del Pd – prende in esame logge ufficiali, non deviate come la P2, e quello che emerge è che chi è coinvolto spesso ricopre funzioni pubbliche all’interno dello Stato».

Le dichiarazioni del pentito di Villabate, malgrado dica di non avere avuto all’epoca «il tempo necessario per capire come funzionavano» le cose, rappresentano uno slancio importante per l’indagine della commissione. «In quel momento specifico in cui Mandalà era nelle grazie di Provenzano e gestiva la latitanza, (..) Provenzano comunica a Mandalà, esattamente la settimana prima che sarà arrestato, che si deve fare arrestare, che cambierà covo, quindi di non parlare, di mettere tutto a posto. Mandalà lo comunica a me: “Mi arresteranno, fai riferimento a mio padre”. Tutta questa serie di informazioni arrivavano», continua a spiegare il pentito. Un «gioco a fare il massone», sempre per usare le sue parole ai magistrati. La sua adesione alla loggia palermitana del Goi Triquetra, tra l’altro, risale alla sua gioventù. Così come quella a Cosa nostra.

Nelle intercettazioni, poi, sono proprio gli stessi affiliati a Cosa nostra, in più occasioni, che parlano del legame con la massoneria, descritta come fosse quasi «un’evoluzione naturale dell’agire mafioso stesso». Tuttavia, l’indagine appena conclusa, «non consente di affermare che mafia e massoneria siano un unicum, ma emerge comunque un innegabile legame tra le due organizzazioni». Non è la prima volta che la Commissione indaga su questo tema. Lo spunto viene soprattutto dalle numerose inchieste giudiziarie che si sono svolte negli ultimi anni. Con particolare attenzione ai casi di comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, come quello di Castelvetrano, dove insistono sei logge massoniche su 19 che operano nell’intera provincia di Trapani. Tra gli iscritti alla massoneria spiccano quelli con un ruolo nell’amministrazione comunale della cittadina: nel 2016, quattro su cinque assessori e sette su trenta tra i consiglieri.

In generale, però, da parte degli affiliati alle diverse logge, lo spirito non è affatto collaborativo, anzi. Da parte di molti è stata  ostentata una certa riluttanza, soprattutto a concedere l’accesso ai registri con i nomi degli iscritti. Alcuni ottenuti, in parte, sequestrando i documenti delle sedi principali delle quattro obbedienze più note. «Il primo dato da sottolineare è che persino questi che dovrebbero essere gli elenchi ufficiali presentano una certa opacità e impossibilità di piena individuazione degli iscritti stessi», spiega la presidente Bindi. La collaborazione con la Direzione nazionale antimafia e la Direzione investigativa antimafa ha permesso di concentrare l’attenzione sugli iscritti con precedenti per mafia, cioè 193 soggetti, di cui sei poi condannati con sentenza definitiva per 416 bis. «Sono 193 i nominativi sottoposti a circa 350 procedimenti giudiziari a loro carico – ancora Bindi -. La maggior parte si sono conclusi con archiviazione, prescrizione o morte del reo. Resta che la gran parte dei soggetti è stata coinvolta in procedimenti per gravi delitti». 

Oltre a partire dai Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, la Commissione si è basata anche sulle Asl commissariate per lo stesso motivo: è emersa in maniera evidente una coincidenza tra i nominativi presenti nelle relazioni di scioglimento/commissariamento e i nomi nelle liste delle logge di obbedienza. Soprattutto in quelle di Castelvetrano, Locri e Cosenza. Circostanza chiara anche nel caso della banca di Paceco, nel Trapanese, commissariata per infiltrazione mafiosa. Emerge, quindi, la presenza di persone con doppia militanza in entrambe le organizzazioni.

«La mafia si interessa alla massoneria, perché la vede come un mezzo che le permette di incontrare certe classi del Paese, a cui aspira per riuscire a riversare il denaro ottenuto illecitamente nel giro dell’economia lecita – continua la presidente Bindi -. Abbiamo riscontrato anche una sorta di arrendevolezza da parte delle organizzazioni massoniche e la mancanza di volontà a dotarsi di strumenti che impediscano all’interesse mafioso di trovare risposte, strumenti, occasioni».

Bindi torna infine sulla riservatezza, «che per noi è vera e propria segretezza, viene imposta – sottolinea – anche ai singoli affiliati alle obbedienze: tra fratelli non si conoscono e non conoscono neppure chi sta ai livelli più alti. Alcuni collaboratori di giustizia fanno riferimento a un’organizzazione massonica che è superiore addirittura a quella mafiosa, i cui nomi non risultano in nessun elenco, ma da cui partono le decisioni più importanti rispetto a entrambe le organizzazioni».

Silvia Buffa

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