Cronaca

Il dominio «feudale» della mafia: a Carini forniva l’acqua a oltre cento famiglie. «Da una vita aiutate i cristiani»

Di padre in figlio, con la forza della discendenza mafiosa. Il passaggio del testimone è quello ai vertici della famiglia di Cosa nostra di Carini, in provincia di Palermo, e avrebbe visto protagonisti Giovan Battista Pipitone e il figlio 43enne John. Il primo è un temibile boss della mafia, condannato all’ergastolo per l’omicidio di Giampiero Tocco. Il secondo, invece, è stato arrestato ieri nell’ambito di un blitz dei carabinieri del comando provinciale di Palermo. Il «comitato», così come è stato ribattezzato il gruppo mafioso di Carini, si sarebbe dato appuntamento tutte le domeniche, dalle 9.30 a mezzogiorno, in un bar della cittadina. Un dettaglio svelato nel corso di una telefonata finita intercettata. A parlare, a novembre 2018, è l’imprenditore Carmelo Cacocciola. Sono passati esattamente due anni dall’arresto del patriarca Giovan Battista Pipitone: «Il posto l’hanno preso i figli – diceva – si misuru supra u cavaddu (si sono messi sopra il cavallo, ndr)».

Quello dei Pipitone sarebbe stato un «dominio incontrastato», scrive nell’ordinanza di custodia cautelare il giudice per le indagini preliminari Fabio Pilato. Potere di tipo feudale che, inoltre, avrebbe trovato il «consenso di una larga parte della popolazione». A dimostrazione di ciò gli inquirenti citano una vicenda particolarmente allarmante. La mafia di Carini avrebbe messo le mani sulla gestione abusiva della rete idrica. Una storia di sottomissione al potere mafioso in cui gli utenti avrebbero addirittura cercato di proteggere il 43enne Pipitone, evitando di rivelare come, con la complicità del fedelissimo Salvatore Abbate, controllasse la distribuzione dell’acqua per uso civile a ben 115 famiglie e «ricavandone ingentissimi proventi illeciti». «Loro devono capire – diceva Pipitone intercettato – che non hanno dove andare… perché non c’è soluzione… non c’è niente da scherzare, qua la cosa è seria. Chi si sente il migliore è morto qua sopra…chi si sente il migliore è morto».

Acqua ma anche appalti da controllare, con l’obiettivo di favore le imprese vicine al clan. Uno degli episodi citati nell’inchiesta è quello che riguarda dei lavori da eseguire, secondo gli inquirenti, nel cantiere per la costruzione del Centro per le Biotecnologie e la ricerca biomedica di Carini. Un imprenditore si sarebbe rivolto al presunto boss, per esempio, per capire come comportarsi nei confronti di un’altra impresa che chiedeva un semplice trasporto di materiale. Al 43enne, in svariate occasioni, si è rivolto anche un ristoratore carinese, già in rapporti con il patriarca mafioso. L’imprenditore chiedeva di potere spendere il «nome della famiglia» in una vicenda di debiti e, nello stesso tempo, esaltava il ruolo del reggente paragonandolo al padre: «Siamo franchi come tuo padre, che siete tutta la vita ad aiutare i cristiani (le persone, ndr)».

John Pipitone avrebbe esercito anche «un capillare controllo delle vendite immobiliari, finalizzato a lucrare i prelievi forzosi – si legge nell’ordinanza – imposti dalla consorteria mafiosa alle parti interessate». Uno dei casi citati rimanda alla messa in vendita di un terreno di ingente valore, per un milione e trecentomila euro, da parte di un privato. «Gli dici – spiegava Pipitone ad Abbate – “So che hai un posto di qualche mille metri da vendere”». Il sottoposto avrebbe colto la palla al balzo. Ecco come rispondeva: «Ora glielo dico…sì, ma prima ci dobbiamo fare i discorsi noi con le persone». Un’attività di intermediazione in cui sarebbe bastata la sola presenza del presunto capomafia «per far sì che la vittima aderisse alla pretesa impositiva in suo danno».

Dario De Luca

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