Una villa in mezzo alle campagne di Cesarò e due case nella periferia Sud di Bronte. Angoli dei monti Nebrodi in cui negli anni ha messo insieme i pezzi del suo patrimonio Salvatore Catania. Allevatore di bovini ma, soprattutto, boss mafioso originario di Bronte, con collegamenti diretti alla famiglia catanese di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano. Il 56enne, attualmente detenuto nel carcere di Terni, ha subito una confisca di beni per un valore di 300mila euro. I carabinieri del Reparto operativo speciale hanno messo i sigilli anche ad alcuni terreni in contrada Bolo-Malamogliera, a cavallo tra le province di Messina e Catania.
L’ultima inchiesta in cui compare il nome dell’allevatore, conosciuto come lo zio Turi, è quella denominata Nebrodi. Insieme a lui, a febbraio 2017, finisce in manette Giovanni Pruiti. Macellaio di Cesarò e fratello del più noto boss ergastolano Giuseppe. Una mafia rurale ma decisamente spregiudicata, la bollano gli inquirenti. I metodi riservati alle presunte vittime non lasciano spazio alla fantasia: croci dipinte sui muri con il sangue dei maiali ma anche bigliettini con mazzi di fiori e tanta violenza. Una ««politica del terrore» che avrebbe avuto le sue menti in Pruiti e Catania. Lo zio Turi secondo gli inquirenti sarebbe il numero uno di Cosa nostra non solo a Bronte ma anche nei vicini Comuni di Cesarò, Troina, Maniace, San Teodoro e Cerami. Forte di un ruolo che sarebbe stato raggiunto attraverso una lunga carriera criminale.
Nei primi anni ’80 le vicissitudini legate al porto abusivo di armi da fuoco. Diversi anni dopo le prime sentenze di condanna che accertano l’appartenenza a Cosa nostra a partire dal 1996. Spesso sottoposto alla sorveglianza speciale, Catania finisce anche nelle carte delle inchieste Padrini, 2008, Gatto selvaggio, 2011, e Iblis. In mezzo c’è il sangue che scorre a Bronte e la violenta faida con il boss Ciccio Montagno Bozzone, un tempo alleato poi passato al gruppo dei Mazzei. Nel 2007, stando al racconto del pentito Santo La Causa, avviene l’ingresso ufficiale di Catania in Cosa nostra attraverso il rito di affiliazione della punciuta. «Una delle persone più serie che ho conosciuto», racconta il collaboratore ai magistrati.
Il provvedimento di confisca e sequestro, emesso dal tribunale misure di prevenzione, arriva però dopo un lungo iter giudiziario iniziato nel lontano 2012. Anno in cui Catania diventa per l’ennesima volta sorvegliato speciale e subisce un primo attacco dello Stato al patrimonio. Due anni dopo dal sequestro si passa alla misura della confisca ma a ribaltare tutto ci pensa la corte d’Appello che dichiara nullo il provvedimento. Il motivo? Un’udienza pubblica viene celebrata in camera di consiglio. Gli atti tornano indietro e bisogna ricominciare da capo con tanto di nomine dei periti, una nel frattempo muore, per le valutazioni tecniche sul patrimonio. I nuovi elaborati arrivano quasi alla fine dello scorso anno. Il resto è storia recente con l’ultima decisione.
«Catania ha gestito l’azienda in modo arcaico e patriarcale […] costantemente coadiuvato dalla moglie e dai figli», scrivono i giudici nei documenti. Nel 2001, stando alla ricostruzione delle carte, la consorte di Catania riceve l’impresa di famiglia «e ancor prima diversi immobili». Segni, secondo l’accusa, di «un’evidente fittizietà di tali intestazioni». Nella lista, come anticipato, ci sono diversi terreni in contrada Bolo. Due aree destinate al pascolo vengono acquistate da Catania, insieme alla moglie, nel 1997. Qualche anno dopo la titolarità passa alla seconda. Che è invece l’unica proprietaria di un terzo appezzamento comperato nel 2006 per una cifra vicina ai diecimila euro.
Nel 2005 due immobili, a Bronte, vengono acquistati dai figli del boss, Mentre una terza villetta, nel territorio di Cesarò, arriva a Catania attraverso una donazione dei genitori. Nel 2011 però l’uomo decide di vendere alla moglie. La piccola casa rurale si trasforma e diventa una villetta dopo una spesa stimata di quasi centomila euro. A non rientrare nel provvedimento di confisca sono invece alcuni beni, che verranno restituiti. Si tratta di due macchine, una delle quali in condizioni precarie, e una somma di denaro di quasi 800 euro, contenuta in due conti intestati ai figli.
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