«Il problema di queste due sentenze è che mettono in grande discussione l’impianto accusatorio della trattativa». A dirlo senza girarci troppo intorno è Giuseppe Di Lello, magistrato del Maxiprocesso e uomo del pool antimafia insieme a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, oggi in pensione. Lo dice a proposito delle due sentenze di assoluzione – le cui motivazioni sono state depositate a poca distanza l’una dall’altra – nel caso dell’ex ministro Calogero Mannino e in quello che ha visto imputati due vertici del Ros dei Carabinieri, il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu. L’unico, importante, punto di contatto con la visione di Antonio Ingroia, pm nel processo sulla trattativa fino al suo ingresso in politica.
Mannino è stato assolto perché impossibile, secondo la gup Marina Petruzzella, dimostrare che abbia ricoperto il ruolo di ispiratore della presunta trattativa Stato-mafia. Soprattutto alla luce del fatto che, secondo la magistrata, il papello consegnato da Vito Ciancimino al figlio Massimo – documento che proverebbe gli accordi fra lo Stato e Cosa nostra e tassello fondamentale del processo sulla trattativa – non sarebbe altro che una «grossolana manipolazione». Nel caso di Mori e Obinu, invece, non sarebbe possibile dimostrare la loro volontà di favorire il boss Bernardo Provenzano e di impedirne la cattura, oltre al fatto che non è stato possibile individuare un valido movente, tenendo conto del fatto che l’accusa ha deciso di rinunciare a contestare ai due militari l’aggravante di aver favorito l’impunità di Provenzano nell’ambito della presunta trattativa Stato-mafia.
Il magistrato, tuttavia, preferisce non sbilanciarsi e si fa subito cauto, chiarendo che «le due sentenze sono autonome rispetto al processo sulla trattativa. È chiaro che poi potrebbero avere un’influenza – aggiunge – ma tecnicamente non c’è un nesso, sono giudizi autonomi». Non è del tutto d’accordo l’avvocato Antonio Ingroia, che il processo sulla trattativa lo ha curato dal principio, prima di entrare in politica. «Una sentenza in particolare potrebbe mettere in crisi l’impianto accusatorio del processo – spiega a MeridioNews – Quella del caso Mannino, una sentenza sbagliata e superficiale». L’ex magistrato non esita addirittura a definirla «una sentenza piena di fraintendimenti e di superficialità nell’analisi del materiale probatorio. A mio parere – dice – sarà facilmente impugnabile dalla procura e riformata dalla corte d’appello di Palermo». «In effetti – continua Ingroia – potrebbero anche esserci delle reciproche influenze: ogni sentenza può avere una refluenza su procedimenti collegati, ma d’altra parte ogni procedimento ha una sua autonomia e una sua storia».
Se Ingroia, quindi, lascia aperto uno spiraglio di fronte al possibile parallelismo fra le due assoluzioni e la credibilità dell’impianto accusatorio del processo attualmente in corso, Di Lello si dice sicuro della loro distanza e indipendenza di giudizio: «Non credo che possa esserci un riflesso negativo al contrario», spiega. Che parta cioè dal processo in corso sulla trattativa, innescando una sorta di effetto domino per altre assoluzioni eccellenti. «In questi ultimi anni ci sono stati tanti processi di mafia e si sono conclusi con condanne, e continuano a esserci anche molti collaboratori di giustizia. Non penso quindi che il processo sulla trattativa possa sortire questo effetto». A tentennare, infine, sul possibile disinnamoramento dei cittadini nei confronti di un processo che finora ha destato non poco clamore, tenendo alta l’attenzione su di sé, è proprio Ingroia. Che ammette: «I rischi ci sono, ma questo fa parte un po’ degli effetti delle sentenze».
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