«Questa volta siete stati bravi. Da vent’anni sono in questa casa». Così Giovanni Arena, 56 anni, ha accolto gli agenti della squadra mobile di Catania che, alle due della scorsa notte, hanno fatto irruzione in un appartamento di Librino dove il boss si nascondeva da 18 anni. Una casa al secondo piano di uno stabile poco distante dal palazzo di cemento, centro del potere della famiglia Arena: gli agenti lo hanno trovato nascosto dietro a un letto a ponte.
L’operazione della squadra mobile è scattata nella notte, con l’irruzione in numerosi appartamenti del civico 5 del viale Moncada, a Librino, da sempre casa degli Arena. «In questi anni abbiamo perquisito l’appartamento in più occasioni – spiega Francesco Testa, sostituto procuratore della Dda di Catania che ha condotto le indagini – ma solo ieri abbiamo trovato il nascondiglio». Uno spazio ricavato nell’intercapedine di un armadio. Giovanni Arena era armato: aveva con sè una pistola calibro 9 millimetri con matricola abrasa. A dare il via allirruzione, unintercettazione ambientale che ha catturato il particolare timbro di voce del boss. La sua lunga latitanza è stata coperta magistralmente dalla famiglia: tutti dalla moglie che ha fatto bonificare da eventuali microspie un auto considerata sospetta, ai nipoti che avevano il divieto di chiamarlo nonno per evitare che fosse riconosciuto hanno contribuito a costruire un efficace sistema di sicurezza. Nei numerosi anni in cui le comunicazioni dei figli sono state intercettate, nessuno ha mai nominato il capofamiglia. Le telecamere nascoste, sono state puntualmente distrutte.
Latitante dal dicembre del 1993 – dopo essere sfuggito all’operazione Orsa maggiore contro la cosca Santapaola – il boss era inserito nell’elenco dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia. Arena era ricercato per associazione mafiosa, detenzione di armi e traffico di droga. Da scontare anche una condanna all’ergastolo per l’omicidio di Maurizio Romeo – detto Cavadduzzo, esponente della cosca rivale dei Ferrera – commesso nel 1989 ad Acicastello. Accusato di essere uno dei responsabili dell’incendio del 18 gennaio 1990 alla sede della Standa in via Etnea – contemporaneamente all’arrivo della commissione antimafia in città – da quell’accusa è invece stato prosciolto. Inizialmente molto legato alla famiglia Santapaola, secondo gli investigatori Arena sarebbe in seguito passato con il gruppo Sciuto-Tigna, alleato del clan Cappello, rivale dei Santapaola. Motivo del passaggio, secondo le indagini, la gestione dello spaccio a Librino, un giro d’affari che la polizia definisce «vertiginoso» e di cui Giovanni Arena risultava il capo indiscusso. Centro del suo potere il cosiddetto palazzo di cemento. «Conservava ancora un ruolo centrale e un forte potere – precisa Testa – perchè tutta la famiglia faceva riferimento a lui».
In carcere si trovano già i quattro figli maggiori di Arena e Loredana Agata Avitabile, 55 anni – considerata la zarina del palazzo di cemento – detenuta a Lecce: Maurizio, arrestato con l’accusa di omicidio nel 1999, Agatino Assunto, catturato lo stesso anno e condannato nel 2010 a 10 anni di reclusione per associazione mafiosa, Antonino, arrestato quest’estate dopo due anni di latitanza e Massimiliano, catturato nel 2007 e poi rinviato a giudizio per il tentato omicidio di un metronotte in servizio davanti alla guardia medica di Librino. Fuori restano il figlio maschio minore e due figlie femmine. Resta da capire se – da domani – la famiglia riuscirà ancora a gestire il business degli stupefacenti.
[Foto di Alberta Dionisi]
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