Trentuno persone sono state arrestate perché indagate a vario titolo di associazione di tipo mafioso, detenzione e produzione di stupefacenti, detenzione di armi, favoreggiamento personale ed estorsione con l’aggravante metodo del mafioso. Ventinove sono state portate in carcere e due sono finite agli arresti domiciliari. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia, hanno riguardato l’organigramma delle famiglie mafiose dei mandamenti di Ciaculli e Brancaccio, che comprende clan come Corso dei Mille e Roccella.
Le misure cautelari sono state eseguite a Palermo, Reggio Calabria, Alessandria e Genova. In particolare, le indagini che hanno fatto luce sui nuovi vertici del clan di Brancaccio e hanno accertato che, dopo un blitz del 2019, le famiglie mafiose hanno cercato di riorganizzarsi. Sono così stati nominati nuovi capi, gregari e soldati, affiliati a Cosa nostra che hanno messo a segno estorsioni ai danni di commercianti e imprenditori e gestito le piazze di spaccio sparse sul territorio di Brancaccio. Parte dei soldi ricavati da queste attività sono stati utilizzati per mantenere le famiglie dei carcerati. Nell’ordinanza vengono ricostruite e documentate cinquanta estorsioni ai danni di titolari di esercizi commerciali: dal piccolo ambulante abusivo fino all’operatore della grande distribuzione, passando anche per un venditore di sfincione (focaccia tipica palermitana) che, dopo avere trovato i lucchetti bloccati dall’attak si è rivolto a uno degli indagati per la cosiddetta messa a posto. Anche un imprenditore edile si è rivolto alla famiglia di Brancaccio per potere costruire appartamenti senza problemi. Aveva intenzione di acquistare un terreno e ancora prima, come emerge da una conversazione intercettata, doveva la protezione alla famiglia mafiosa per non incorrere in furti, rapine o danneggiamenti. I sopralluoghi degli uomini del racket e la richiesta di pizzo sono avvenuti anche in cantieri vicini a un commissariato di polizia.
Ci sarebbe Cosa nostra anche dietro al furto di venti cartoni con 16mila mascherine FFp3 sottratte per rivenderle, in piena emergenza epidemiologica. Nella misura cautelare il giudice stigmatizza la subcultura mafiosa sottolineando che «non ci si può esimere dal rimarcare che costituisce plastica dimostrazione di come la scelta di vita degli indagati sia fondata, già in termini culturali e ideali, proprio su un principio di contrapposizione ai fondamenti della libertà democratica e al rispetto delle regole, il reiterato utilizzo delle parole sbirro o carabiniere quali offese che si ritrova in più conversazioni intercettate». Il gip richiama inoltre una intercettazione di un boss che nel maggio del 2019, durante i preparativi per il ricordo della strage di Capaci e via D’Amelio, bacchettava il familiare di un coindagato perché voleva fare partecipare la figlia alle iniziative scolastiche organizzate per commemorare i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Cosa nostra torna poi a puntare sul traffico di stupefacenti che rappresenta un’importante voce nel bilancio delle famiglie mafiose. Dalle sei piazze di spazio dello Sperone, tutte gestite o controllate dai componenti dei clan, il ricavo presunto calcolato è di circa 80mila euro a settimana. Nel corso delle indagini è emerso che le cosche si rifornivano di droga dalla Calabria. Durante l’inchiesta sono stati 16 gli arresti in flagranza per detenzione di sostanza stupefacente e sono stati sequestrati circa 80 chili di droga tra cocaina, purissima ancora da tagliare, hashish e marijuana per un valore sul mercato di oltre 8 milioni di euro. La polizia giudiziaria ha eseguito un sequestro preventivo del capitale sociale, di beni aziendali e dei locali di alcune imprese per un valore complessivo di circa 350mila euro. Secondo le indagini, alcuni beni erano intestati a prestanome di mafiosi. Al centro dell’indagine sono finite una rivendita di prodotti ittici, due rivendite di caffè e tre agenzie di scommesse.
L’organizzazione mafiosa avrebbe imposto anche le cosiddette sensalerie, cioè delle mediazioni sulle compravendite di immobili. La mafia di Ciaculli avrebbe anche messo le mani sull’acqua, soprattutto quella irrigua da fornire ai contadini. Acqua che sarebbe stata sottratta direttamente alla conduttura San Leonardo, di proprietà del Consorzio di Bonifica. La famiglia mafiosa poteva contare anche su numerose armi semiautomatiche nascoste nelle campagne di Ciaculli che, finora, non sono state trovate.
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