In concomitanza con i festeggiamenti agatini, il Teatro Stabile di Catania ha previsto la rappresentazione di uno degli spettacoli più attesi – e meritatamente – della stagione 2008/09: il Macbeth, celeberrima tragedia shakespeariana ripresa e adattata con maestria dal regista Gabriele Lavia, anche protagonista. Pur non essendo un’opera lirica, lo spettacolo è stato realizzato al Teatro Massimo Bellini per via delle dimensioni della sontuosa scenografia ma la prima rappresentazione è stata poi posticipata di un giorno, per problemi sorti con l’allestimento scenico precedente.
Shakespeare dipinge con quest’opera una tragedia concisa e maledetta sull’ambizione, l’amore, la solitudine e il male che degenerano in una inesorabile sconfitta dell’uomo, macchiata indelebilmente dal sangue. Ancora, una tragedia animata da due protagonisti sopra tutto: la natura travagliata e tortuosa di Macbeth, ora titubante e timoroso, ora crudele e avido di potere, infine dilaniato dai rimorsi, interpretato magnificamente da Lavia stesso e al suo fianco la sensuale Giovanna Di Rauso a rendere bene l’ambigua Lady Macbeth. La moglie è nel testo come in scena specchio di una coscienza ancora più oscura e primitiva, ispiratrice e complice di delitti orrendi fino ad una pazzia da cui non potrà più separarsi. “Ciò che è fatto non può essere disfatto” continuerà a cantilenare per tutta la durata del secondo tempo. Non da meno l’interpretazione delle tre avvenenti streghe (Giorgia Sinicorni, Chiara Degani, Giulia Galiani), sempre inseparabili e sempre armoniose in performance di gruppo, disinibite nei loro corpi nudi e scolpiti sotto al mantello, decise e corali anche nelle altre interpretazioni (cameriera, vecchia, perfino sicario).
La scena, maestosa per l’imponenza del palco occupato per intero, è allo stesso tempo composta da elementi frugali con terriccio sul pavimento, che nella loro semplicità richiamano l’idea di un camerino di teatro: a sinistra una toilette da attore, sedia, specchio con luci e lavabo; a destra un caos d’abiti appesi e bauli da trovarobe. Per rappresentare “il palcoscenico del mondo”: cambiano le città dove si svolge la rappresentazione, ma la metafora è sempre uguale. Nell’impacciata recita del potere, l’attore principale si trucca, indossa scarpe con rialzi e doppiopetto esasperati con la paura del debuttante. Lo spazio pensato dallo scenografo Alessandro Camera è curato nei dettagli e si avvale inoltre di un enorme specchio per giochi di rimorsi di coscienza e apparizioni premonitrici delle streghe. Il tutto avvolto spesso da pesanti coltri di fumo, ora per via di feroci combattimenti ora presagio di funeste presenze infernali.
“Macbeth – sottolinea Gabriele Lavia – è la tragedia del tempo umano, il tempo lineare di un’esistenza fatta di “domani”, un tempo fatto di paura. È la tragedia del tempo di un Uomo Nuovo condannato al “fare” per “potersi fare”. Re o altro ha poca importanza. Un uomo condannato alla paura di perdere ciò che ha raggiunto col suo “fare” e che vive nell’ambigua incertezza di essere qualcosa e non essere mai nulla con certezza. Questo Uomo Nuovo non è portatore di un nuovo modello di realtà, ma il dubbioso interprete di una soggettività in pezzi, pieno di nostalgia per una ontologia smarrita per sempre”.
Gli eventi si concludono con la vestizione del nuovo re al trono di Scozia. Il palcoscenico della storia è andato in pezzi e l’Uomo-Attore sulla scena del mondo recita la grande metafora del mondo come Teatro, di derivazione erasmiana: “La vita è una commedia dove ognuno recita con maschere diverse finché il Grande Direttore di scena (Dio) gli far lasciare il palco”.
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