Luigi Lo Cascio: «Io, attore e cavia»

Domenica sera si concluderanno le repliche di “Diceria dell’untore”, al teatro “Verga” di Catania. Protagonista dello spettacolo, accanto al regista-attore Vincenzo Pirrotta, il palermitano Luigi Lo Cascio, reso celebre dalla sua interpretazione di Peppino Impastato ne “I cento passi” (2000). Per il secondo anno consecutivo, l’attore ha scelto di spiegare il suo spettacolo, e non soltanto, ai microfoni di Radio Zammù, rispondendo alle domande preparate da Step1 assieme ai due speaker della trasmissione “Skenè”, Elio Sofia ed Assya D’Ascoli.

“Diceria dell’untore”, tratto dal romanzo di Gesualdo Bufalino e adattato per il teatro da Vincenzo Pirrotta. Spettacolo complesso, com’è complesso il romanzo da cui parte…
«E’ un testo dell’81 su cui Bufalino ha lavorato per decenni. Lui era un insegnante, non aveva la necessità di diventare scrittore e anche a distanza di tempo, ormai conosciuto, ha mantenuto questa caratteristica, cioè il fatto di scrivere per se stesso. Sembra una cosa presuntuosa invece dà il senso dell’importanza della scrittura come farmaco personale, come prospettiva di contrasto alla vita, come possibilità di riflessione, di meditazione, su certi argomenti che non vengono lasciati “vivere” ma che col gioco della memoria e della reinvenzione possono diventare di tutti. La scrittura è un malanno individuale che anziché diventare qualche cosa di rimuginato in maniera egoistica diventa per la collettività una calamità».

Quale pensi che sia il ruolo dell’attore mettendo in scena una piéce difficile come questa?
«L’attore è una persona che si occupa di fare un esperimento sull’uomo al posto di tutti. E’ come se fosse una cavia: va lì e fa vedere agli spettatori cosa ne è dell’uomo in particolari circostanze. E’ una posizione molto pericolosa. Ciò non toglie che, però, anche lo spettatore deve fare la sua parte. Nella sua condizione spionistica e voyeristica, deve aderire ad un patto: deve far finta che le cose che accadono sulla scena lo riguardino, che ciò a cui assiste non è qualcosa che può controllare dalla comodità della sua poltrona ma dalla quale si lascia travolgere».

Il narratore di “Diceria dell’untore” sembra quasi un giornalista, qualcuno che vuole raccontare la verità sporcandosi le mani…
«La malattia è un morbo fatto di corruzione e disfacimento. E’ una caduta. La cosa interessante della scrittura di Bufalino, così ostica, è il fatto che non c’è parola che non sia patita, sofferta. In questo senso ha evitato il rischio di fare calligrafia, di fare della lingua soltanto un esercizio di stile. Non si può togliere aggettivo senza che anche il sentimento che c’è dentro venga sconvolto, e Vincenzo Pirrotta ha avuto il merito di non edulcorare la lingua di Bufalino, facendo ascoltare al pubblico qualcosa che non ha mai sentito, in grado di scandalizzarlo e di scuoterlo».

Sciascia definiva “barocca” la scrittura di Bufalino e Pirrotta ha dichiarato di non aver stravolto il testo del romanzo. Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nell’interpretarlo?
«Io mi sono concentrato sul piacere dell’interpretazione, e non sulla difficoltà. Dire quelle parole è un godimento proprio fisico: quando l’attore si lascia modificare dalle parole che dice, la difficoltà che c’è diventa secondaria. Il trattamento della lingua, secondo le prescrizioni di Bufalino, è musicale. Lo scrittore dice che il suo non è un romanzo, è più un poema narrativo, vicino alla prosa d’arte. Lui non fa distinzione tra poesia e prosa, è quasi un melodramma. La dimensione teatrale, addirittura di teatro in musica, è fondamentale. Nello spettacolo, i personaggi sono tutti sul punto di morire, quella dicono potrebbe essere la loro ultima frase, quindi ogni parola ha un effetto, è come se fosse un’ultima battuta».

Sei anche un regista, e hai diretto te stesso. Come hai gestito questa dicotomia? Ti senti mai appagato dall’idea che tu regista hai di te attore?
«Per fortuna ho fatto questo spettacolo con Vincenzo: mi sono ricordato di come dev’essere un regista. Io sono molto pigro e le prove, che dovrebbero durare tipo sei ore, durano due ore, un’ora e mezza, fanno i conti con la mia stanchezza, col fatto che io dopo pranzo devo dormire almeno per un’ora. Sono molto indulgente. Avendo scritto uno spettacolo credo che me la caverò, sbagliando. Insomma, improvviso molto. E’ interessante, quando faccio spettacoli miei: ho l’idea del clima che voglio ci sia in quel momento, e non preparo nulla, nemmeno le intonazioni».

Abituato al teatro, il tuo lavoro di attore per il cinema non risulta quasi un passatempo? I tempi cinematografici sono totalmente diversi…
«Sono due esperienze completamente diverse, anche dal punto di vista tecnico. Non saprei dire cos’è più facile e cos’è più difficile. Paragono il teatro alla maratona, senza neanche il conforto della sosta per ricevere un po’ d’acqua: si entra in scena e comincia tutta una serie di tappe, di chilometri, e anche di crisi, che avvengono sulla scena, davanti al pubblico. Il cinema è un po’ come i concorsi dell’atletica leggera, il salto in lungo o il lancio del peso, ma necessita di un altro tipo di fatica: la capacità di non stancarsi per tutto il tempo che si aspetta prima di dover fare quella cosa che si esaurirà quel giorno. Il cinema non è, come si pensa, il luogo in cui si può sbagliare e non se ne accorge nessuno, perché uno può sbagliare una serie di possibilità, ma almeno una di quelle nel film dovrà esserci».

A proposito di cinema. Nel 2010 uscirà “Noi credevamo”, per la regia di Mario Martone, con te, Tony Servillo e Luca Zingaretti. Avete già finito di girare?
«Sì, ed è stato un lavoro molto laborioso per un film difficile. Mario Martone è stato molto ostinato, per fortuna, perché non è semplice costruire un film sul Risorgimento, come questo. E’ tratto in buona parte da un romanzo di Anna Banti. Uno va dal produttore e dice “faccio un film tratto da un romanzo di Anna Banti”… E chi è Anna Banti? O anche, che cos’è questo strano mostro che è il Risorgimento? Sarebbe un film in costume, quindi costoso, cose che alla gente non gliene frega niente, ma non c’è una storia d’amore… Insomma, sono delle cose che affossano subito un progetto cinematografico dal punto di vista della produzione che, a sua volta, fa i conti con il pubblico. E Martone ha insistito tanto, e ha anche voluto attori di teatro».

Una domanda strettamente legata a questo periodo dell’anno: quali sono, secondo te, i meccanismi che portano le sale a riempirsi per il cosiddetto “cinepanettone”, mentre è così difficile che il cinema d’autore trovi spazio?
«C’è a chi piace il panettone o il pandoro. A me non piacciono, io preferisco la pastiera napoletana e i dolci siciliani. C’è gente che va al cinema una, due volte all’anno, con tutta la famiglia e coi figli: questi sono film che danno la certezza del divertimento. Non tolgono spazio ai film d’autore, anzi, bisogna lasciarli sopravvivere perché magari invadono le sale nel periodo natalizio, però fanno sì che i produttori riprendano i soldi che serviranno per altre cose. I fondi, nel cinema, girano».

Ascolta l’intervista integrale di Luigi Lo Cascio a Radio Zammù:

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Luisa Santangelo

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