La piccola fabbrica di Acicastello di Luciana Cavalli contro il colosso internazionale della moda Roberto Cavalli spa. Nel mezzo ci sta lo stesso cognome per due aziende che producono capi d’abbigliamento e accessori. «I legali del noto brand mi hanno fatto causa nel 2011, dopo trent’anni di onorata carriera, chiedendomi di cambiare il mio marchio mentre mi accusavano pure di contraffazione», racconta l’imprenditrice etnea. Il procedimento legale è durato sei anni e, la scorsa settimana, è arrivata «inaspettatamente» la vittoria in primo grado per la ditta di Acicastello. «So che faranno ricorso in appello ma, per adesso, ci godiamo questo momento. Sono stati sei anni terribili, professionalmente e personalmente molto difficili», commenta l’imprenditrice. Un’occasione che le permette di raccontare a MeridioNews la vicenda.
«Alla fine degli anni ’80 ho aperto nella frazione di Cannizzaro un laboratorio in cui creavo dapprima solo cinture e borse», comincia l’imprenditrice. «Ho ereditato la passione per questo settore da mio nonno, il quale, nel 1930, aveva una fabbrica di calzature in pelle a Piazza Armerina. Nessuno dei suoi figli ha seguito le sue orme mentre io, fin da piccola, mi divertivo a giocare con le sue attrezzature e i suo materiali. Dopo le scuole medie – prosegue – scegliere l’istituto d’Arte di Catania è stato un passo semplice. Altrettanto lo è stata l’idea di iscrivermi alla scuola di moda Marangoni di Milano, un’eccellenza». Tra le più promettenti stiliste del suo corso, Luciana Cavalli, continua la formazione negli studi di moda Callaghan e, dopo avere terminatol’esperienza, decide di tornare nel capoluogo etneo e di avviare il suo marchio. «Il laboratorio all’inizio andava così bene che, insieme a mio marito, dopo un po’ abbiamo deciso di produrre pure calzature», aggiunge.
«Negli anni ’90, quando avevo appena una trentina d’anni, era a capo di un’azienda con 35 operai uomini e la cosa non era per nulla semplice per una donna e per i tempi che erano», racconta orgogliosa. «Ho fatto moltissimi sacrifici per inseguire un sogno che era l’unica cosa, tra l’altro, che mi piaceva e che sapevo fare – spiega – Quando, dopo trent’anni di lavoro, mi è arrivato a casa un faldone pieno di citazioni in giudizio dalla Roberto Cavalli spa, mi è crollato tutto addosso». «All’epoca l’azienda aveva appena superato un momento delicato, dovuto alla crisi economica mondiale. Intorno al 2000, infatti, le migliori boutique del mondo in cui distribuivamo avevano iniziato a tagliare sugli ordini e, per non soccombere, avevamo deciso di puntare su un pubblico di acquirenti più ampio», racconta Luciana Cavalli.
«Quando stavamo cominciando a rimetterci in sesto, a differenza di colleghi che non erano riusciti a reinventarsi per un altro mercato, è cominciata la causa. Per dimostrare che non stavo truffando né mi stavo arricchendo sulle spalle del noto brand ho dovuto presentare l’iscrizione camerale di mio nonno del 1930», aggiunge Luciana Cavalli. «Non avrei mai creduto di riuscire a vincere la battaglia giudiziaria anche perché, in queste circostanze, a riportare la vittoria è sempre il cosiddetto pesce più grosso. Se è andata invece diversamente è merito della mia avvocata, Simona Pavone, una donna determinata che conosceva la mia storia e sapeva quanti sacrifici avevo fatto per il mio sogno», conclude l’imprenditrice.
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