Londra, a 17 anni in cella per un malinteso «Malmenati, la polizia ha arrestato noi»

Una normale serata tra amici, a Londra, che si trasforma in un incubo. E’ la storia del primo viaggio all’estero di Marco, diciassettenne di Mascali, studente del quarto anno all’Istituto nautico di Riposto: per le vacanze di Natale è andato a trovare il fratello Andrea, 21 anni, lì da ottobre in cerca di occupazione. Sono le 22.00 di venerdì 27 e i fratelli insieme ad altri due amici decidono di uscire, dandosi appuntamento nella centralissima Piccadilly Circus. Arrivano alle 23.30, prendono un panino da Mac Donald, e programmano di «fare un salto allo Zoo bar, un pub dove si beve e si ascolta musica dal vivo», racconta il giovane. Un locale dove i quattro ragazzi siciliani non arriveranno mai: nel tragitto vengono seguiti da un gruppo di sei ragazzi inglesi, malmenati, e infine arrestati dalla polizia. L’accusa: il furto di un orologio, denunciato proprio da uno dei ragazzi inglesi. «Ho passato tre giorni in prigione senza poter nemmeno fare una telefonata a casa, sempre con gli stessi vestiti addosso, per una cosa che inizialmente non ho nemmeno capito. Sento molta rabbia», racconta il giovane alla presenza dei genitori a quattro mesi dall’episodio.

Insieme ai suoi compagni sta ora affrontando un processo: le prime udienze, tenutesi rispettivamente il 13 gennaio e il 24 marzo, sono servite solo «a raccogliere le dichiarazioni di non colpevolezza dei ragazzi, con un ulteriore rinvio a giorno 8 dicembre», racconta il padre di Marco, Antonio. Il procedimento viene seguito da un avvocato fornito ai familiari dei quattro ragazzi dall’Ambasciata italiana a Londra. «Il legale, che sembra molto in gamba, ci ha rassicurato: perché non ci sono prove, non hanno trovato nulla e nemmeno mai fatto a botte in vita loro», dichiara il genitore, preoccupato per il figlio, che attualmente è seguito da uno psicologo. «Non so se festeggiare i miei 18 anni, con tutte le spese che stanno sostenendo i miei per questa storia, tra viaggi aerei e altro», afferma il ragazzo, preoccupato anche per il suo futuro. «Se questa storia non finirà bene, potrei avere problemi anche ad imbarcarmi su una nave al termine della scuola».

Dell’episodio i genitori sono venuti a conoscenza solo il giorno dopo: sabato 28 intorno all’una, ad avvertirli è il padre di un ragazzo vicino di casa di Marco, anche lui di nome Andrea e coinvolto nella vicenda, partito insieme a lui per passare alcuni giorni di svago. «Quando i ragazzi inglesi ci hanno raggiunti, ci hanno prima chiesto se volevamo dei biglietti per una serata in discoteca – ricostruisce il giovane – Abbiamo cercato di allontanarci, e ci hanno chiesto se volevamo droga. Al rifiuto, non contenti, in un vicolo del quartiere Soho, ci hanno circondati e messo le mani addosso. A quel punto mio fratello ha richiamato l’attenzione di due agenti nei paraggi».

L’intervento dei policeman, però, si ritorce paradossalmente contro di loro. «L’agente ha raccolto la testimonianza di uno di loro: dall’avvocato abbiamo saputo che si chiama Davis di cognome, e che parlava di ragazzi provenienti dall’est Europa, pure ubriachi – prosegue il racconto di Marco – Un nostro amico, Giuseppe, che si trova a Londra da più tempo, ha parlato con i poliziotti capendo che cercavano un orologio. Li abbiamo invitati a perquisirci: non hanno trovato nulla, e pensavamo che tutto fosse finito lì». Pochi minuti dopo, però, un agente in borghese raggiunge i quattro giovani. «Ci ha messo le manette ai polsi, e poco dopo ha fatto salire mio fratello e gli altri due amici su una camionetta. Io invece, forse perché minorenne, sono salito su un’auto».

Arrivati al posto di polizia, i ragazzi vengono subito fatti entrare in uno stanzone. «Qui ci hanno fotografato, preso le impronte, un campione di saliva. Poi ci hanno fatto consegnare i telefoni e tutti gli altri oggetti, hanno eseguito i test per la droga e per l’alcool, e nuovamente perquisiti, senza trovare nulla. Gli altri miei amici, tutti maggiorenni, sono anche stati costretti a spogliarsi nudi», ricorda Marco. Sono le 3.30 del mattino, e ai ragazzi viene assicurato che il giorno dopo sarebbero usciti. Così Marco va a dormire, molto scosso ma «rincuorato dal fatto che si trattava solo di poche ore fino al mattino dopo», nella sua cella della stazione di polizia. La mattina del giorno successivo,  gli unici che vengono lasciati liberi sono il fratello Andrea e l’amico Giuseppe. «Probabilmente perché lavoravano già in Inghilterra», ricorda la madre del ragazzo, Biagia, che non appena ha saputo la notizia, insieme ai genitori del vicino di casa, inizia una estenuante ricerca di informazioni. «Dopo qualche ora di richieste, tra conoscenti e internet, riusciamo a trovare il numero dell’ufficio della Farnesina adatto – racconta la madre – Ha risposto una segreteria telefonica, ma siamo stati richiamati dopo pochi minuti».

Il racconto del contatto con gli uffici del Ministero degli Esteri non è dei migliori. «Ci ha risposto un funzionario, dicendoci che “i ragazzi erano stati fortunati”, e che per eventuali spese potevamo “richiedere un prestito”». La situazione si sblocca solo il lunedì successivo, con l’intervento dell’ambasciata. «Più penso a quanto è successo, più credo che ci sia una forma di razzismo: dai contatti che abbiamo preso a Londra, pare che questi episodi si ripetano spesso – prosegue il genitore – abbiamo anche saputo di alcune associazioni che danno assistenza legale agli stranieri contro queste gang di ragazzi inglesi. In Italia nessuno avrebbe subito questo trattamento, figuriamoci un minorenne», conclude il padre.

Leandro Perrotta

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