L’ombra dei culti neri e l’avanzata della mafia nigeriana «Le gang nei vuoti di Cosa nostra. A Mineo? Possibile»

Una mafia quasi invisibile ma dai metodi terribilmente violenti, capace di controllare una fetta del mercato della droga e dello sfruttamento della prostituzione. Espandendosi in buona parte del territorio nazionale, Sicilia compresa. E mentre a Palermo nei mesi scorsi è arrivata la prima condanna a un gruppo tutto nigeriano che avrebbe agito con le stesse modalità di assoggettamento di Cosa nostra, è da diverso tempo che qualcosa dentro la mafia nera sembrerebbe muoversi anche nella parte orientale dell’Isola.

Uno dei segnali che ha fatto drizzare le antenne agli investigatori rimanda agli ultimi mesi del 2018. Quando all’interno del Centro d’accoglienza per richiedenti asilo di Mineo è scoppiata una violenta rissa. Decine di persone coinvolte e alcune costrette a fare ricorso alle cure dei medici dell’ospedale di Caltagirone per i profondi tagli provocati dall’utilizzo di coltelli. Altro episodio due settimane fa. Due persone restano ferite dopo una lite in cui vengono tirati fuori forbici e maceti. Poi, come confermano fonti sanitarie a MeridioNews, vengono trasferiti d’urgenza al Pronto soccorso dell’ospedale Gravina e piantonati per ore. Pezzi sparsi di una storia che potrebbe avere un unico filo conduttore e che porterebbe ad alcune tra le principali confraternite della mafia nigeriana. Nate in ambito studentesco e universitario nel Paese africano e poi convertite, ed esportate, al mondo della criminalità.

Così da Palermo fino a Mineo e Catania avrebbero preso piede con i loro affari i Black Axe: le asce nere. Fondati nel 1977 da alcuni studenti dell’università di Benin City per «liberare l’uomo dalla morsa delle catene dell’oppressione». Più giovani ma non per questo meno agguerriti sono i Vikings, nati nel 1982 all’università di Port Harcourt e caratterizzati dai colori rosso-neri. Il blu scuro è invece il segno distintivo degli Eiye.

Le indagini della procura di Palermo e le dichiarazioni del pentito Austine Ewosa – da tutti conosciuto come Johnbull, presto ribattezzato il Buscetta nigeriano – hanno evidenziato all’interno dei culti criminali una «rigida organizzazione verticistica» capitanata dai don, i capi cultisti. Che si fanno largo, muovendosi in maniera strategica, negli affari legati a spaccio di droga, prostituzione ma anche estorsioni, come si legge nell’ultima relazione semestrale pubblicata dalla Direzione investigativa antimafia. Contrariamente alle mafie nostrane i rifornimenti di stupefacenti sarebbero organizzati anche sulla base di piccoli quantitativi. Niente carichi da centinaia di chili ma corrieri disposti a rischiare le manette per poco. Sobbarcandosi viaggi in autobus e trasferte in Lazio e Campania, in particolare nella zona di Castel Volturno, prima di fare rientro in Sicilia. A luglio scorso è finito in manette Emanuel Godwin. Fermato mentre provava a fare entrare all’interno del Cara un chilo di marijuana. Nella gerarchia degli stupefacenti di cui si occupano Black Axe e Vikings ci sono anche le pillole di Rivotril e Tramadol: il primo è un antidepressivo, mentre il secondo appartiene alla classe degli antidolorifici oppioidi. Entrambi vendibili solo dietro prescrizione medica, eppure facilmente reperibili tra i bazar di Mineo e gli stretti vicoli del quartiere San Berillo, a Catania.

A differenza della mafia italiana, sempre meno orientata a utilizzare metodi violenti, quella nigeriana fa della crudeltà uno dei suoi tratti distintivi. Il pentito Johnbull, per esempio, ha raccontato di un connazionale seviziato e picchiato con un tubo di ferro per un giorno interno in un tugurio nel quartiere Ballarò, a Palermo. C’è poi il mondo dei social network dove, con estrema facilità, è possibile reperire decine di video e fotografie di persone con le teste mozzate che vengono mostrate come dei luccicanti trofei e condivise su centinaia di bacheche. Una pratica non applicata in Sicilia ma che verrebbe utilizzata dagli appartenenti delle gang per impressionare le loro vittime: «Se non ci rispetti, ecco quello che siamo in grado di fare», sarebbe il senso. Ed è anche per questo motivo per cui Facebook è uno dei canali maggiormente controllati dagli investigatori. 

«In Sicilia ci sono degli spazi aperti in cui si inseriscono organizzazioni diverse da Cosa nostra. Le loro vittime sono principalmente altri immigrati e per tutti questi motivi starei molto attento nel definirla la quinta mafia italiana, anche perché manca quel salto di qualità rappresentato dai legami che le nostre mafie hanno con la politica. Sicuramente in Italia si sta enfatizzano il suo potere in chiave anti-immigrazione ma il pericolo non può essere certamente sottovalutato». Ad analizzare per MeridioNews le caratteristiche della Cosa nera venuta dalla Nigeria è il professore Federico Varese, docente dell’università di Oxford specializzato nello studio delle organizzazioni criminali nel mondo. «Al Cara di Mineo scommetterei sulla presenza di gang – continua Varese -. Come nelle prigioni brasiliane, in cui c’è molta libertà di movimento, all’interno del centro d’accoglienza sarebbe molto prevedibile l’emergere di forme di controllo e protezione sociale. Il radicamento in un territorio è comunque molto difficile. Per esempio molti italiani si sono trasferiti in Argentina ma non per questo c’è stata una diffusione della mafia siciliana come è invece successo a New York. Le migrazioni non sono mai le spiegazioni uniche ma bisogna analizzare le condizioni locali».

Uno dei più grossi misteri legati alla mafia nera a Catania è quello che rimanda al nome di Gabriel Ugiagbe. Il barone della droga nigeriana che oggi, almeno stando all’anagrafe, dovrebbe avere 39 anni. Per un periodo aveva trasformato un anonimo appartamento dentro ai palazzoni del quartiere Librino in una roccaforte. La sua presenza però non è passata inosservata e al viale Bummacaro 14 lo ricordano ancora oggi, quando siamo andati a cercarlo. «Non abita più qui da circa tre anni», ci risponde la sua ex vicina di pianerottolo. Gabriel è una sorta di fantasma, finito anche – come raccontato da La Repubblica – in alcuni appunti riservati dei servizi segreti italiani. Incuriositi dalla sua capacità di fare affari con la droga in giro per il mondo. «Qui c’è stata tanta polizia e dopo quel momento si sono perse le sue tracce», continua la signora. Nessun indizio, nemmeno tra le pagine di cronaca, rimanda però alla sua cattura. Che fine ha fatto Gabriel? Dentro l’appartamento che aveva preso in affitto adesso ci vive una famiglia catanese. «Ci siamo trasferiti – raccontano – ma non l’abbiamo mai visto».

Non ci sono però solo crimini violenti e droga ma anche le donne nigeriane reclutate, trasferite e sfruttate nell’industria del sesso a pagamento. Cominciata negli anni ‘80 nello stato di Edo, nella parte meridionale del Paese. Nelle reti nigeriane, spesso sono donne a sfruttare altre donne. Le protettrici, ex prostitute comunemente chiamate madame, possiedono come una sorta di oggetto le loro vittime. Almeno fino a quando queste ultime non ripagano il loro debito. Perché sono proprio le protettrici a farsi carico delle spese di reclutamento e tratta delle ragazze da alcuni dei villaggi più poveri dell’Africa. Come evidenziato dalla ricercatrice dell’Università di Oxford Charlotte Baarda, prima di partire dalla Nigeria le vittime vengono condotte in antichi santuari. Qui entrano in scena i sacerdoti voodoo e i loro rituali basati sulle credenze della cultura nigeriana: dal mangiare cuori di pollo al farsi segnare la pelle con dei rasoi. Così le vittime vengono legate ai propri aguzzini, fino a quando non ripagheranno il loro debito con i trafficanti. I tempi non sono certi, ma possono volerci fino a cinque anni. Un girone dell’inferno che passa anche da Catania, dalla strada provinciale 194 e all’interno del Cara di Mineo. Le indagini sulla prostituzione nel centro sono nate da un dato che ha insospettito gli investigatori: l’alto numero di aborti da parte di donne nigeriane, 32 solo nel 2012. 

Dario De Luca

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