Lo statuto? E’ la partita dell’Ateneo

Dopo il turbolento avvio della procedura richiesta dalla Legge Gelmini, sono in molti a chiedersi cos’è uno Statuto universitario, come cambierà, quali saranno le conseguenze sull’ateneo catanese. Per cercare di far chiarezza, Step1 ha intervistato il professore Giacomo Pignataro, ordinario di Economia delle finanze e membro del CdA dell’università etnea.

Cominciamo con una premessa: si parla tanto della riscrittura dello Statuto, cosa significa?
«La legge 240 chiede di rivedere lo Statuto, la carta fondamentale dell’autonomia universitaria, sul quale si stabiliscono gli obiettivi, la missione, i principi organizzativi, i diritti e i doveri della comunità universitaria. Una riorganizzazione a partire dall’attività didattica che, insieme alla ricerca, verrà affidata ai dipartimenti. Con il nuovo Statuto, si dovranno rivedere anche la composizione e le competenze del Senato Accademico e del Consiglio di Amministrazione».

Nello specifico, come influirà la riforma dello Statuto, secondo i dettami della legge Gelmini, sul sistema universitario catanese?
«In un’università come quella di Catania si gioca una partita fondamentale, in un contesto che sarà caratterizzato da un’intensa competizione sulle risorse finanziarie. Dopo la costituzione dell’ANVUR (l’Agenzia Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca, ndr) che, per delega prevista dalla legge Gelmini, dovrà stabilire i criteri di accreditamento delle sedi e dei corsi di studio, si individuerà ciò che un’università può fare oppure no. In questi anni sono state forti le pressioni per differenziare il sistema universitario. Il rischio è che questa differenziazione possa passare attraverso il dato territoriale: Nord e Sud».

Quindi il nostro Ateneo potrebbe già partire svantaggiato?
«Sì, come tutte le università del Sud. Ma non perché negli atenei del Mezzogiorno non ci sia una didattica di qualità. Il problema principale è che l’intensità della ricerca è collegata alle risorse finanziarie e al Sud scontiamo un divario consistente, dovuto al diverso sviluppo economico e alla distribuzione diseguale del Fondo di Finanziamento Ordinario. Tutto ciò pesa sugli atenei meridionali e quindi anche su Catania. Le norme statutarie, con la riorganizzazione delle strutture, devono essere finalizzate ad ottenere dipartimenti efficaci nella produzione di ricerca e didattica di qualità».

Uno dei cambiamenti più radicali apportati dalla nuova legge sarà la sparizione delle facoltà a favore di mega-dipartimenti a cui, oltre alla ricerca, verrà affidato anche il settore della didattica. Quali saranno i cambiamenti per docenti, ricercatori e studenti?
«Il nodo fondamentale sarà l’organizzazione dei dipartimenti in termini di composizione di aree scientifiche e di produzione di ricerca attrattiva nei confronti degli investitori. Ne va garantita quindi la massima flessibilità nella composizione, anche per salvaguardare la multidisciplinarietà di alcune aree di ricerca. La legge 240 parla di omogeneità dei settori disciplinari, ma è un criterio burocratico con cui si rischia di tagliare la ricerca interdisciplinare. Tuttavia bisognerà agire in modo da offrire agli studenti un prodotto di qualità e in linea con gli ordinamenti didattici nazionali. Affidando i corsi di studio ai dipartimenti, essi devono avere al loro interno tutte le competenze necessarie a garantire l’offerta formativa».

Se ciò non dovesse avvenire, quali rischi correrebbe la didattica?
«In una scomposizione delle facoltà e in una loro riaggregazione all’interno dei dipartimenti, potremmo trovarci con strutture che non hanno il matching perfetto con i corsi di studio attualmente offerti».

Le aree che hanno un impatto meno diretto nello sviluppo tecnologico, come, ad esempio, quella umanistica, non verranno penalizzate da questo tipo di organizzazione?
«Nell’ambito di un Ateneo generalista come il nostro, ci sono delle aree scientifiche più deboli per la loro capacità di attirare risorse esterne. Dobbiamo far sì che la locazione delle risorse sia basata sul merito, ma essa deve tenere conto anche della necessità che le risorse che utilizziamo garantiscano queste aree come progetto culturale di un ateneo, che non può certo fare a meno della cultura umanistica, della formazione di base e della speculazione teorica “pura”».

Quali potrebbero essere gli strumenti per mettere in atto una giusta ripartizione delle risorse tra i diversi dipartimenti e, di conseguenza, tra le diverse aree di interresse e settori di ricerca?
«Con la nuova legge si vuole definire un sistema di vincoli e regole strette per tenere “la bestia in gabbia”, e questo è davvero inefficace. Occorrerebbe invece un sistema di grande autonomia delle università, ma anche delle singoli dipartimenti al loro interno. Purtroppo a questo sistema di autonomia non si è mai affiancato un insieme di criteri di responsabilità nell’utilizzo delle risorse».

Come potrebbe colmare questa lacuna il nuovo Statuto?
«Enfatizzando il principio della responsabilità per i risultati in termini di ricerca e di didattica realizzati da ciascun dipartimento. Tale principio di responsabilità deve però essere reso operativo attraverso un sistema di valutazione che tenga conto delle differenze esistenti tra le diverse aree scientifiche, inevitabilmente multidimensionali. Dovremmo dar vita ad un sistema molto serio, gestito in maniera trasparente, attraverso organismi il più possibile indipendenti. L’allocamento delle risorse finanziarie e umane va collegato a questo sistema di valutazione ».

Quanto tempo verrà impiegato per l’effettiva attuazione di questi cambiamenti?
«Per quanto riguarda la modifica dello Statuto il tempo è abbastanza definito. È dettato dalla Legge, ovvero sei mesi dall’entrata in vigore, il 29 gennaio scorso, a cui si potranno eventualmente aggiungere altri tre mesi se il processo non fosse completato. Dopodiché, lo Statuto, redatto dalla commissione, adottato dal Senato dopo il parere positivo del CdA, dovrà essere trasmesso al Ministero che valuterà la coerenza con i principi e i criteri contenuti nella legge. Lo Statuto diverrà esecutivo non appena si sarà ottenuto il benestare dal Ministero. Realisticamente quindi, tutto ciò non avverrà prima dell’anno accademico 2012/2013».

Entriamo nel merito: dopo l’approvazione del nuovo Statuto, cosa cambierà e quali saranno gli effetti su didattica e ricerca?
«Innanzitutto non avremo più le facoltà ma potremmo avere strutture di raccordo che servano a coordinare l’attività didattica tra i diversi dipartimenti. I presidenti dei dipartimenti, a differenza dei presidi di facoltà, non avrebbero automaticamente diritto a stare in Senato accademico. Per quanto riguarda l’organizzazione dei corsi di studio, la legge non ha comportato innovazioni e il problema sta su come ricollocare questi corsi. Qui la composizione dei dipartimenti è cruciale: l’esistenza dei requisiti previsti per un corso di studi dovrà essere verificata in capo ai dipartimenti o in capo a queste strutture di aggregazione. Cambieranno anche gli organi di governo».

Nello specifico?
«La differenza più significativa si avrà nel CdA, meno numeroso nella sua composizione: da 24-25 componenti si passerà ad un numero massimo di 11, con aperture anche al mondo non universitario. Lo Statuto dovrà definire i criteri attraverso i quali selezionarne i componenti. Ritengo che bisognerà garantire competenza e, il più possibile, appartenenza alla comunità scientifica, anche internazionale. Inoltre la selezione dovrebbe avvenire attraverso il Senato, mediante una commissione appositamente nominata, senza che essa sia affidata alla competenza del solo Rettore. Come bisogna evitare che siano componenti del CdA persone che ricoprono, o che hanno ricoperto in un passato relativamente prossimo, cariche politiche».

La mancata apertura del Senato accademico a tutti i direttori di dipartimento non rischia di snaturarne la funzione originaria?
«La norma prevede che almeno i 2/3 del Senato siano composti da docenti e che almeno 1/3 di questi 2/3 siano direttori di dipartimento. A mio parere, un criterio di funzionalità organizzativa complessiva richiede che in Senato, l’organo di coordinamento dell’autonomia, siedano i responsabili delle strutture di base, cioè i direttori di dipartimento. Parliamo dell’organo che deve stabilire una strategia di Ateneo e, sulla base di questa, valutare le proposte che vengono dai dipartimenti».

Quale sarebbe un giusto modello di processo decisionale all’interno del nostro Ateneo?
«Per quanto riguarda le scelte fondamentali, deve essere un processo bottom up: deve partire dall’autonomia delle strutture dipartimentali e vedere il Senato accademico momento di verifica e di coordinamento dentro una strategia di Ateneo. Il CdA deve farne poi una valutazione, deve verificare l’efficienza e l’efficacia con cui sono state utilizzate le risorse in relazione agli obiettivi che si perseguono. Una ricerca non semplice di un equilibrio tra i poteri».

In questo percorso, come potrebbero essere utili gli studenti?
«Quando parliamo di valutazione parliamo anche di quella degli studenti e, a mio avviso, questa oggi deve avere un peso nella distribuzione delle risorse. Gli studenti sono gli stakeholder fondamentali. Nel Regno Unito, ad esempio, la loro valutazione viene utilizzata per l’allocazione delle risorse ai propri dipartimenti. Il ruolo degli studenti va determinato in termini di possibilità di incidere nel controllo delle risorse».

Un controllo a monte e a valle dunque.
«Esattamente».

Conoscendo l’Ateneo di Catania, un’innovazione così radicale cosa potrà produrre?
«Credo che, a prescindere dal giudizio che possiamo dare sui contenuti di questa Legge, l’ateneo giochi la partita della vita. È una partita che va giocata bene: a partire dal modo in cui organizzeremo la revisione dello statuto, attraverso un processo che deve portare a una piena condivisione dei risultati, a un confronto – quanto più ampio possibile – delle idee; un processo, quindi, che deve avvenire sulla base di regole del gioco chiare».

Sarà un match impegnativo.
«È ovvio che in una ristrutturazione così ampia e radicale si confrontano interessi diversi. Se però consideriamo il contesto di questa ristrutturazione, dobbiamo capire che la partita non la giochiamo al nostro interno, ma al nostro esterno. Anche il legittimo perseguimento dei singoli interessi deve confluire in una logica di tutela dell’interesse della comunità che viene servita dall’ateneo. In questo senso partecipazione e condivisione significano non solo rispetto del principio democratico, che è stato sempre fondante nelle comunità scientifiche, ma corrispondono all’efficacia con la quale sapremo realizzare l’esecuzione delle innovazioni statutarie e organizzative. Se questo processo è governato da pochi, e una parte consistente si sente esclusa, è chiaro che il processo camminerà su gambe molto fragili».

Proprio di esclusione e violazione dei principi democratici si è parlato al momento della nomina della commissione che si dovrà occupare della revisione dello statuto.
«Su questo non credo si possano avere balbettìi: è stata denunciata, da parte di alcuni membri del Senato, la violazione delle regole procedurali. Credo che le regole siano un patrimonio indisponibile perché appartengono a tutti e a nessuno; senza di esse ci sarebbero solo l’arbitrio e l’anarchia, su questo non si può deflettere. Proprio perché la revisione dello statuto è la partita dell’Ateneo, essa non può essere ridotta a uno scontro tra parti avverse. Soprattutto il Rettore di un’università – colui che rappresenta l’intera comunità perché ne ricerca la sintesi tra le diverse posizioni e la composizione degli interessi – non deve rischiare di apparire come il giocatore di una squadra contro un’altra. Qui esiste solo un gruppo, quella dell’Università di Catania. È questa che alla fine vincerà o perderà. È chiaro che il rispetto delle regole è un prerequisito».

Cosa andrebbe fatto, dunque?
«Saggezza vorrebbe che di fronte al rischio che il processo di revisione dello statuto possa subire interruzioni a causa di una querelle che riguarda l’applicazione delle regole si riportasse, anche per una sorta di auto-tutela, il processo di costituzione della commissione alle regole che disciplinano il funzionamento degli organi dell’Ateneo. In questo momento non c’è alcun interesse ad aprire competizioni e scontri».

Come si spiega il gesto così improvviso del Rettore?
«Il professore Recca aveva organizzato una prima riunione informale del Senato e del CdA il 10 gennaio e in quella sede aveva informato che i tempi della Legge erano sufficientemente lunghi affinché si procedesse con una certa prudenza. Sono rimasto sorpreso quando – a meno di due settimane da quell’occasione – c’è stata un’accelerazione nella nomina della commissione. Il problema tuttavia non sono i tempi in cui si costituisce la commissione, ma il procedimento».

Lei in Cda si è astenuto.
«Non perché avessi qualcosa da ridire sui nomi, ma perché proponevo un percorso che fin dall’inizio realizzasse quei principi di condivisione e partecipazione che sono fondamentali per la buona riuscita di questa operazione. Spero che si possa ripristinare questa possibilità».

Cosa spera che succederà adesso?
«Spero che l’ateneo eviti di incorrere in battute di arresto che non servono all’interesse né dell’ateneo né dei diversi soggetti».

Questo però presupporrebbe una marcia indietro del Rettore.
«Non si tratta di fare marcia indietro. Può accadere, nella vita di un’amministrazione pubblica, che laddove ci si rende conto che dei provvedimenti possono correre il rischio di essere dichiarati illegittimi, si revochino in auto-tutela e si provveda a rinforzare la procedura di deliberazione con un rispetto delle regole che ne assicuri la piena legittimità».

Deviando leggermente dal tema di questa discussione, nel progetto di riorganizzazione generale sarà riconfermata la linea intransigente nei confronti del decentramento?
«È evidente che, laddove si era previsto che ci fossero facoltà insediate in sedi diverse da quelle di Catania, venendo a mancare le facoltà dovremo valutare se c’è la possibilità di insediare le nuove strutture. Complessivamente, ci troviamo di fronte ad una dichiarata volontà del ministero di agire con molto rigore nella valutazione della qualità dell’offerta formativa fuori dalla sede principale».

L’ipotesi del quarto polo in Sicilia diventa sempre più lontana?
«Era dato per imminente fino a qualche mese fa. Adesso non se ne sente più parlare. Non posso escludere che d’improvviso qualcuno tiri fuori nuovamente la questione, ma le difficoltà che sono insorte fanno presagire che non si porterà a termine. Comunque spero che, laddove ci sia l’intenzione di istituirlo, il ministero adotti i criteri rigorosi che enuncia per qualsiasi sede universitaria».

Carmen Valisano

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