L’Italia unita sotto il segno delle ‘mafie’

Nel giro di una decina di giorni sono stati sciolti il Consiglio comunale di Reggio Calabria, con intervento amministrativo del ministro degli Interni, e il Consiglio regionale e la giunta della Regione Lombardia, con le dimissioni del governatore, Roberto Formigoni, a causa delle infiltrazioni della ‘ndrangheta negli affari della politica e dell’amministrazione. In passato anche la mafia siciliana aveva avuto modo di concorrere al conseguimento di questo risultato per il tramite della banca Privata di Michele Sindona, nonché altri tentativi di investimenti immobiliari importanti (esempio, acquisto rudere industriale ex Venchi Unica) ed altri ancora.

Possiamo con certezza affermare che, laddove la politica non è riuscita in 150 anni a realizzare l’unità d’Italia, sono arrivate con successo le organizzazioni malavitose. Dal Nord al Sud registriamo un unico disegno criminale che ha unificato il costume dell’intero Paese.

Sorge spontanea una domanda: a questo ‘bel’ risultato ha forse contribuito il fatto che, da circa mezzo secolo, il Parlamento italiano, con l’apporto qualificato di un’apposita commissione, studi il fenomeno mafioso e che questi studi siano serviti a conseguire questo importantissimo traguardo nazionale?

Tra i paradossi italiani questo appena segnalato non è l’unico. Si pensi, per esempio, al dibattito insistito sulle ragioni per le quali in Italia sono assenti gli investimenti stranieri. La prima ragione che di solito viene addotta è la scarsa flessibilità ‘in uscita’ della forza lavoro dalle aziende. Da qui la necessità e l’urgenza di eliminare l’articolo 8 dello Statuto dei lavoratori.

Poi la farraginosità delle procedure burocratiche per l realizzazine dei lavori pubblici e, quindi, la legge obiettivo; quindi la dichiarazione di grandi eventi per assegnare l’intervento alla Protezione civile al fine di superare ogni ostacolo procedurale, dribblando garanzie e trasparenza amministrative. O, ancora, la lentezza della Giustizia, nel qual caso per renderla più rapida si aumentano le fattispecie di reato aggiungendo magari quello di clandestinità. E così via, attribuendo alle garanzie sociali e alle procedure amministrative le responsabilità proprie della politica priva di qualsivoglia progetto di nazione, ma con la velleità di partecipare alle grandi opzioni internazionali, anche come fanalino di coda.

Una testimonianza attuale di questo modello di partecipazione alle vicende internazionali è la presenza del nostro Paese nella guerra in Afghanistan. Qualcuno sa spiegare le ragioni per le quali i nostri soldati combattono questa guerra? Bin Laden non c’è più, i talebani sono creature degli Stati Uniti. Allora, contro chi e per quale ragione le nostre truppe partecipano a questa guerra, costringendoci a sopportare costi umani e finanziari sempre più gravosi?

In conclusione, se la politica non si dà una mossa e si ripensa in una visione più autorevole e sempre meno bottegaia; se non si riconsidera la funzione propria della sua missione generale e, per esempio, non ci dice per quanti decenni ancora la commissione parlamentare Antimafia deve studiare il fenomeno per venirne a capo, sarà veramente arduo il compito di recuperare credibilità agli occhi della società e degli elettori.

 

Riccardo Gueci

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