L’Italia che esporta armi, business da 3,5 miliardi Amnesty: «La vendita legale rifornisce i terroristi»

Tre miliardi e mezzo di euro: è questo il costo della fortezza Italia, il mercato delle esportazioni di armi dal nostro Paese, principalmente verso il Nord Africa e il Medio Oriente. Sono le stime presentate da Amnesty International, che ieri a Palermo ha snocciolato dati e cifre nell’aula circolare di Giurisprudenza.

«Cifre irrisorie – secondo Giorgio Beretta, analista dell’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa – se si considera che il Paese produce un fatturato di cinque miliardi l’anno solo dal mercato del vino. L’aspetto economico non incide in maniera determinante sul Pil nazionale e dovrebbe farci riflettere sul fatto che l’industria delle armi ha pesanti conseguenze sulla pace e sulla sicurezza in Medio Oriente e Nord Africa, dove vengono esportate maggiormente».

Gli fa eco Giuseppe Provenza, responsabile di un gruppo palermitano di Amnesty International (Italia 243), secondo cui «ci si nasconde sempre dietro il vessillo occupazionale, ma basterebbe convertire la vocazione produttiva di questa industria, salvaguardando i livelli occupazionali, senza per questo produrre (e immettere sul mercato) armi».

Dove si producono armi Italia? Da Brescia a Livorno, passando per le zone a sud della capitale e Napoli, fino alla Sardegna, dove una fabbrica acquisita da una società tedesca produce bombe. «Ma altri casi di produzione di armi – sottolinea ancora Provenza – riguardano società a partecipazione statale, quindi lo Stato è implicato direttamente. Dalla Sardegna partono o sono partite quantità enormi di bombe indirizzate all’Arabia Saudita, proprio quel Paese che bombarda lo Yemen, distruggendo ospedali o uccidendo civili inermi. Su questo è intervenuta Amnesty per sottolineare quanto sia irresponsabile da parte dell’Italia permettere che Paesi che violano i diritti umani ricevano armi che partono anche da casa nostra. La stessa cosa succede anche in Egitto».

La responsabilità morale della vendita: è questo il tema secondo gli operatori dell’associazione umanitaria. «Non immaginiamo – precisa Beretta – che oltre il commercio legale, ci sia un sommerso di chissà quale entità. Molto spesso si pensa di fermare i gruppi armati, i dissidenti, l’Isis, cercando di fermare il commercio illegale: è una grande fandonia. Il commercio illegale di armi leggere è al massimo il 5 per cento di tutto il commercio legale, è una parte limitatissima. C’è poi un’area grigia, attorno al 20 per cento, di commercio di armi che parte legale, ma che poi sprofonda nell’illegalità».

«Un esempio? – rincara Beretta – Nel 2009 l’Italia ha esportato come armi comuni 11.100 tra pistole, fucili e carabine alla guardia di pubblica sicurezza del colonnello Gheddafi. L’autorizzazione fu data il giorno stesso che il colonnello venne per la prima volta in visita in Italia, il 10 giugno del 2009. Erano armi della Beretta, non c’era nessun divieto perché era stato tolto l’embargo di armi verso la Libia e c’era anzi un rapporto di amicizia con quel Paese. Ma non a caso, tutte le associazioni umanitarie, a partire da Amnesty International fino all’UNHCR, hanno denunciato i trattamenti disumani che la Libia riservava ai rifugiati, invitando il Paese a desistere. Ma l’Italia, nonostante i nostri moniti, portò a termine la compravendita».

«Ebbene – prosegue il racconto di Beretta – abbiamo tutti i documenti, le armi sono arrivate in Libia, consegnate alla guardia di pubblica sicurezza di Gheddafi e conservate nel bunker del colonnello, a sud di Tripoli. Quando gli insorti nel 2011 entrano nel bunker di Gheddafi, l’inviato del Corriere della Sera scrisse “qui ci sono letteralmente montagne di casse di armi Beretta e di munizioni”. Tutte nuove. Sky news riuscì a registrare le immagini del saccheggiamento delle armi. La settimana scorsa abbiamo letto la notizia che alcune di queste armi si trovano nel mercato nero di Bengasi».

Insomma, secondo Beretta «gli insorti o i terroristi li stiamo rifornendo noi, anche con le vendite legali fatte in modo irresponsabile. Quando si vendono armi a regimi o dittatori, i casi sono due: o quelle armi saranno usate dai dittatori – conclude – per sparare contro la loro popolazione, o la popolazione insorgerà e finiranno con l’uccidersi tra loro, una fazione contro l’altra».

Miriam Di Peri

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