L’efficacia dell’insegnamento di una lingua straniera non dipende soltanto dalla bravura del docente, ma anche dalla motivazione che si riesce a scatenare nello studente. A dirlo è uno dei docenti più noti di Didattica delle lingue moderne in Italia, Graziano Serragiotto. Relatore del convegno nazionale “La facoltà di capire il mondo”, organizzato dalla facoltà di Lingue di Catania, il docente dell’Università Ca’ Foscari Venezia ci parla dell’importanza della formazione nelle lingue straniere in relazione al mondo lavorativo.
Quanto è importante conoscere oggi le lingue straniere?
Conoscere le lingue è sempre stato importante e non è una questione solo di oggi. Il fatto è che ai giorni nostri il problema diventa ancora più importante perché vi è la necessità di conoscere più lingue, visto che la nostra società diventa sempre più multiculturale. Ma soprattutto, nell’ambito della comunità europea e del lavoro, diventa ormai fondamentale conoscere sicuramente la lingua inglese, che piaccia o meno. È un must, è qualcosa di cui non si può fare a meno. E poi, al di là della lingua inglese si devono imparare altre lingue, proprio per avere nel mondo lavorativo più sbocchi e nuove possibilità.
Lei insegna “Didattica delle lingue moderne”. In quale modo si può formare uno studente in questo campo?
Nella didattica delle lingue ci sono diverse possibilità: da una parte ci sono dei corsi di formazione, dall’altra ci sono delle pubblicazioni in merito e così si può avere un approccio da autodidatta. E soprattutto ci si deve formare nell’ambito delle tecnologie tenendo conto anche dell’evoluzione dei nostri studenti, cercando anche di cambiare le modalità per tenersi al passo coi tempi. Direi che prima tutto quello che è fondamentale è motivare gli studenti. La motivazione è la cosa più importante. Quindi se si riesce a motivare gli studenti, si ottengono dei risultati. Se non si riesce ad attivare la motivazione, è difficile arrivare a dei risultati successivamente.
Secondo Lei, quale sarà il futuro dell’insegnamento linguistico?
È ovvio che la necessità di avere più ore per l’insegnamento delle lingue resta un punto fermo. Si parla di risultati a volte scadenti per quanto riguarda l’insegnamento delle lingue straniere in Italia: io dico sempre che questo non dipende dai docenti che insegnano o dalle modalità che usano. Molto spesso dipende dal fatto che il numero di ore dedicato all’insegnamento delle lingue è veramente poco rispetto a ciò che si vorrebbe ottenere. Se partiamo dalla produzione orale di lingue straniere, una delle attività più difficili da ottenere (nel senso che ci vuole più tempo affinché si possa sviluppare), si richiede di avere molte più ore. Secondo, c’è un’altra cosa da tenere in conto che riguarda anche il numero di studenti per classe: se pensiamo che nelle scuole ci sono più o meno trenta allievi per classe e il tempo dedicato a ciascuno studente è di un minuto circa per lasciarlo parlare, è veramente difficile sviluppare una buona abilità orale.
Lei è stato uno dei relatori del convegno nazionale “La facoltà di capire il mondo”. Perché è diventato necessario in Italia spiegare il grande peso delle lingue nel mondo contemporaneo?
Probabilmente perché le lingue non vengono considerate importanti attualmente, nel senso che è un dato di fatto che siamo tra quelli dove le lingue sono meno sviluppate e poi abbiamo anche un quadro della riforma (Gelmini, ndr) che prevede un numero di ore inferiore nella didattica delle lingue straniere, le quali comunque non vengono valorizzate. Quindi c’è la necessità di attirare un po’ l’attenzione dei media, del mondo lavorativo, perché se diventa un’esigenza avere delle competenze linguistiche alte per qualsiasi ambito, diventa fondamentale che si cerchi di sviluppare una politica linguistica adeguata. Tra l’altro una delle potenzialità nello sviluppo riguarda il CLIL, l’apprendimento integrato di lingue e contenuti. Penso che non sia solo importante sapere le lingue. Uno studente che si laurea semplicemente in lingue non è competitivo nel mondo del lavoro. Si dovrebbe laureare in lingue e in qualcos’altro. Diventa fondamentale che si sappia fare qualcos’altro in lingua straniera: lavorare su dei contenuti eccetera. Allora può diventare interessante anche per il mondo del lavoro.
Ha parlato dell’approccio CLIL. Ci può spiegare di che cosa si tratta e perché è considerato importante nel processo dell’insegnamento/apprendimento delle lingue?
Il CLIL (Content and Language Integrated Learning) è l’apprendimento integrato di lingue e contenut: cioè si insegna una disciplina attraverso una lingua straniera. Quindi vuol dire che la lingua straniera è veicolo per trasmettere dei contenuti. Questo diventa fondamentale perché in qualche modo si sviluppa, oltre alla comunicazione, anche l’abilità dello studio, di lingua dello studio in contesti precisi. Inoltre è importante perché sviluppa dei punti di vista diversi, entrando anche in un contesto europeo. La cosa fondamentale – se la si riesce a sviluppare – è che si potrebbe riuscire, anche in ambito della scuola secondaria di secondo grado, ad avere delle competenze disciplinari in lingua straniera tali da poter prendere, ad esempio, un A-Level inglese in matematica o fisica e poter accedere alle università inglesi. Ci sono in Italia delle facoltà come quella di Pavia, oltre alla Bocconi, nella quale il corso di Medicina si tiene interamente in lingua inglese. È anche un valore aggiunto: se io posso accedere a delle fonti in lingua straniera, ad esempio in storia sulla Prima guerra mondiale vista dalla parte dei francesi, italiani, tedeschi ed inglesi, penso ci saranno delle visioni differenti dello stesso fatto. Allora se si ha la possibilità di citare dei documenti, viene sviluppato anche lo spirito critico degli studenti.
Quali sono le difficoltà incontrate in Italia per attivare i corsi CLIL?
Purtroppo si tratta, da una parte, di competenza del docente; dall’altra del livello linguistico dello studente. Il livello linguistico degli studenti si può cercare di aumentarlo. Il problema attualmente sono i docenti, perché la formazione universitaria e quella successiva dei docenti in Italia è fatta in modo tale che noi andiamo avanti per compartimenti stagni: ci si laurea o in materie umanistiche o in materie scientifiche, senza considerare poi le divisioni interne alle aree.
Si dovrebbe mirare al sistema americano, dunque?
Sì. Ma già in Germania, per non andare tanto lontano, ci si può tranquillamente laureare in francese e in chimica. Quindi si potrebbe insegnare sia francese sia chimica. E a quel punto abbiamo una persona che è competente. Invece da noi, solo nelle scuole primarie si ha la possibilità di avere un unico docente che insegni inglese e altri ambiti disciplinari. Nelle altre situazioni, in cui si è lavorato con una certa flessibilità, l’insegnante della disciplina e l’insegnante della lingua straniera hanno dovuto lavorare insieme. Si è cercato di lavorare in questo modo proprio perché le competenze disciplinari in lingua straniera non sono presenti negli insegnanti di disciplina.
E quindi un laureato italiano in lingue straniere oggi non ha un futuro? O forse dipende anche dalla scelta del suo percorso universitario?
Diciamo che non è tanto quello che si fa sulla carta, ma quanto poi si sa fare. E comunque nel prossimo futuro sarà indispensabile conoscere l’inglese e le altre lingue. Già nella riforma (Gelmini, ndr) si prevede che nella scuola secondaria di primo grado la cattedra si chiamerà “Lingua inglese e altra lingua comunitaria”. I nuovi analfabeti del domani saranno coloro che non conosceranno l’inglese e il web. Del resto, nessuno ha mai avuto problemi perché ha imparato più lingue.
* Graziano Serragiotto insegna “Didattica delle lingue moderne” ed è ricercatore presso l’Università Ca’ Foscari Venezia. Collabora al progetto “Laboratorio Itals Ca’ Foscari” ed è uno dei responsabili del didattici del Master Itals. Ha pubblicato diversi libri tra i quali “La facilitazione e la mediazione linguistica nell’italiano L2” (edito da Studio LT2) e “Le lingue straniere nella scuola” (edito da UTET Università).
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