L’ingegnere e l’ontologia della morte Le maras, l’ordine sociale dell’inferno

Nel 2012 El Salvador registrava un Pil pari a quasi 24 miliardi di dollari statunitensi. Una ricchezza così l’Italia la produce in quattro giorni e mezzo. Quando un paese è povero, e il lavoro manca, l’emigrazione tende ad essere la miglior risposta. Diminuiscono le bocche da sfamare in madre patria e aumentano le remittance, quella parte del reddito guadagnato all’estero e rispedito alle famiglie lasciate a casa. All’Italia del dopoguerra l’emigrazione ha fatto bene. El Salvador, invece, l’hanno ammazzato. Grazie alle maras.

Le maras sono le gang che governano le strade salvadoregne e le riempiono di morti ammazzati. Dodici al giorno per l’esattezza, almeno fino a un fatidico 9 marzo 2012, data a cui arriveremo tra poco. Sono un fenomeno nato all’estero, qualche migliaio di chilometri a nord, nei ghetti e nelle prigioni di Los Angeles tra gli anni ’60 e ‘70. Le maras più grandi si chiamano Barrio 18 ed MS-13, e sebbene il loro nodo nevralgico sia oramai San Salvador, contano migliaia di membri in decine di paesi, Italia compresa.

Le due maras sono più che semplici gang di strada. Ai membri non è data solo un’identità collettiva ma uno stile di vita, un codice morale, un concetto di giusto e sbagliato, di bene e male, di libertà e condanna. E soprattutto, al marero salvadoregno si insegna che si può morire in due soli modi: ammazzati da un gruppo rivale, o ammazzati da un membro del tuo stesso gruppo per tradimento. Le maras sono composte da giovanissimi. In un paese rotto, afflitto da una mancanza cronica di istruzione, di lavoro e da abissali diseguaglianze economiche, le maras prendono il ruolo sociale della famiglia, della scuola, dell’idea di una comunità stabile.

Mettono ordine all’inferno, ma è dall’inferno che nascono ed è nell’inferno che esistono. L’ordine sociale dettato dalle maras è basato sulla morte. Barrio 18 ed MS-13 sono rivali da decenni, e il numero dei morti causati dalla faida è sulle migliaia. Il sangue versato non appartiene solo ai mareros ma anche ai civili. Una delle maggiori fonti di sostentamento delle gang è il pizzo. O cedi alle estorsioni o muori, niente negoziazioni o mezzi termini. Lo sanno bene, per esempio, i conducenti dei bus di San Salvador, tra i più colpiti dalla minaccia maras.

Dicevo, dodici morti al giorno fino al 9 marzo 2012, quando, dopo una lunga negoziazione guidata dal Monsignor Fabio Colindres, le due gang hanno dichiarato una tregua tra loro e nei confronti del governo. Da quel giorno, i morti giornalieri sono diminuiti a cinque. Estorsioni e altri crimini rimangono, ma il numero di membri che chiedono perdono alla comunità per gli atti commessi pare aumentare.

Il minore numero di omicidi, tuttavia, sembra essere bilanciato da un aumento del numero delle scomparse. E’ una delle riflessioni di Mathew Charles e Juan Passarelli, registi del documentario The Engineer, in anteprima oggi a Londra. Il lungometraggio segue la vita di Israel Ticas, noto come l’ingegnere, l’unico criminologo attivo in El Salvador. Israel passa la vita a cacciare cadaveri, li chiama la sua famiglia. E’ un lavoro scomodo, che non piace né al governo né alle gang.

Attraverso la storia dell’ingegnere, corpi dissotterati e i ricordi di ex-mareros si entra in quell’inferno che sostiene le maras. Si è inondati da un ontologia, un concetto di esistenza che gravita attorno al solo concetto di morte. Il senso di orrore di Lovecraft io lo trovo qui, più reale che mai.

 

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[Foto di photojock]

Stefano Gurciullo

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