L’idiozia dei test d’ingresso

Con rassegnazione da più di un decennio chi vuole andare all’università si deve sottoporre ai test di ammissione. La novità fu introdotta ai tempi dei governi dell’Ulivo. E come tutte le misure che vengono adottate in forza di luoghi comuni consolidati, ma sempre luoghi comuni, nel nostro Paese nessuno discute più: si trasformano in assiomi. Il sovraffollamento dei corsi di studio stava alla base di questa, chiamiamola per semplificare, razionalizzazione. Ordine, moralizzazione, severità, promozione, europeizzazione, merito, selezione gli ulteriori rafforzativi.

Ma in dieci anni è realmente cambiato qualcosa? La qualità degli studenti selezionati con il test d’ammissione o d’ingresso è superiore a quella di chi in passato serenamente sceglieva il proprio corso di studi con l’unico discrimine di impegnarsi o non farlo, di frequentare o lasciare banchi e aule in poche settimane? Non è retorica o nostalgia, no. Perché quel che si muove intorno all’accesso all’università è un vero e proprio mercato, di bassissimo profilo, in cui a mettersi i soldi in tasca, spesso, sono gli stessi che parlano con voce tonante a favore della moralizzazione.

GLI ATENEI FANNO CASSA Il test è preceduto da costosissimi corsi di preparazione e lo stesso accesso all’esamino ha una sua tariffa ufficiale: 150 euro. Con trappole e ghigliottine disseminate ovunque, di cui parleremo più avanti, i neodiplomati ne sostengono tre o quattro alla vigilia dello stesso anno accademico per avere la certezza di superarne almeno uno. Chi vuole può divertirsi ad indagare, i ragazzi lo fanno: i giorni dei test non coincidono mai. Basta poi spostarsi da Roma in giù, ma anche dalla capitale verso nord, per scoprire altre tagliole economiche o nepotistiche: umilianti informali colloqui; umilianti informali anticamere; umilianti informali attese.

A chi giova? La popolazione scolastica è diminuita rispetto alle generazioni figlie degli anni del boom. Paradossalmente si sono moltiplicati gli Atenei e le difficoltà per accedervi, un nonsenso. La scelta della facoltà è un momento di maturità per i più seri. Gli studi universitari sono il vero banco di prova. Perché ridicolizzarlo? I test di ammissione per chi vuole, per esempio, intraprendere studi in Medicina o in Ingegneria, piuttosto che in Giurisprudenza o in Economia riguardano tutt’altro.

LE VARIE TIPOLOGIE
Si parte dagli psico test a domande nozionistiche di cultura generale, o, al contrario, troppo tecniche per la malridotta qualità, complici i diversi governi, degli studi nella scuola secondaria superiore che il progetto Gelmini vuole ulteriormente immiserire. Domande a risposta multipla dove lo scostamento è minimo o nascosto con furbizia; chiedere la differenza etimologica di alcune parole (ditemi voi quandoalle superiori si parla di etimologia, ma dai); cosa nasconda l’acronimo Sars e qui i problemi di comprensione sono addirittura due; individuare citazioni da romanzi che non si fanno mai studiare. L’elenco è incommensurabile, ma soprattutto più della metà delle domande dei test non ha alcuna ragione legata alla facoltà che si sta per iniziare. E poi: andate a vedere le statistiche, i voti minimi e diversi sui test da università ad università.

L’idiozia dei test così come la scarsa trasparenza del sistema universitario bloccano a volte per anni brillanti carriere universitarie. Mi ha raccontato recentemente una studentessa in Medicina di aver avuto encomi a scena aperta dalla commissione per il modo brilante in cui aveva superato l’esame in Anatomia, uno dei primi seri scogli per chi vuole fare il medico. La ragazza si è indignata e ha avuto il coraggio di dirglielo mentre le registravano il trenta e lode: ipocriti, mi avete fermato ai test per due volte. Che senso ha tutto questo?

Fabio Luppino

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