Licata, se tutto il popolo sta dentro a una maglia Il collettivo Fx firma il nuovo murales alla Marina

C’è la zia Lina che fa il caffè in continuazione e quando le arriva quello fresco preso alla Drogheria e preparato da Peppe in persona, in regalo, lei lo apre subito e lo fa per tutti, per condividerlo. C’è lo zio Franco che va ad aiutare il figlio al panificio all’alba, poi torna e dalla macchina si sente fortissima la voce di Gianna Nannini che canta Notti magiche. «Ho fatto la pizza calda calda, la volete?». C’è Bianca, la bulldog inglese che osserva dal balcone il lavoro del collettivo Fx a Piano delle palme, a Licata. Il nuovo intervento del gruppo licatese Niente cambia niente è ancora nel cuore del quartiere della Marina. Nel giro di poche strade ci sono tutti i lavori, firmati da street artist arrivati un po’ da tutt’Italia (e qualcuno pure dalla stessa Licata), che raccontano la rigenerazione urbana di un rione svuotato di botteghe ma pieno di persone. Il murales che spunta all’improvviso tra i palazzi bassi le mostra tutte, le persone. E quelle che non ci sono si riconoscono lo stesso, tra i profili di una maglia del Licata, fatta di volti e nomi. Rigorosamente gialloblù, coi colori fatti da Marco di Rimural, che promette: «Ora, quando finisco di lavorare, me lo vengo a vedere il murales. Ma chi ci avete messo?».

 C’è Angilina Angilora, maestra di Rosa Balistreri, che canta a pochi metri dalla sua allieva. «Te la ricordi l’Angilora? – dice chi passa – Era sempre contenta, sempre che cantava». «E quello? Quello chi è?». Quello è Zdeněk Zeman, poi ci sono Paolo Abbate, Pippo Romano, Peppe Accardi e Angelo Consagra. C’è la storia della squadra di calcio di Licata nel momento, rimasto nella storia, in cui militava in serie B. E poi c’è chi per il Comune dell’Agrigentino ha fatto qualcosa di buono pure al di là dello sport. Da Franco Galia – che ha fondato la sezione locale del Wwf – a don Agostino Profeta – l’ultimo dei pupari agrigentini. «E iu ‘un ci sugnu?», chiede chi passa dalle strade strette e fresche della Marina, dove alcuni muri crollati si sono trasformati in giardini di piante aromatiche e altri, invece, sono rimasti a mo’ di monito di quello che potrebbe essere, se nessuno ci pensa un poco. «Me lo fate un murales nella mia facciata?», domanda una delle vicine della zia Lina. «Qua sapete che ci stava? – afferma un ragazzino coi pantaloncini corti e un pallone in mano – Una bella aquila, al centro, al posto di dove sta la finestra». «L’aquila poi sai dove la facciamo? – gli risponde l’artista, col naso ustionato e i vestiti incrostati di vernice – Su un altro muro, forse quello là all’angolo, in alto». «Bello», risponde il ragazzino sgranando gli occhi.

«Qui a Licata è una delle situazioni in cui mi sono trovato meglio», sostiene il componente del collettivo Fx (lo stesso che a Catania ha lavorato nel quartiere di San Berillo), dall’alto di una scala lunga metri e metri, appoggiata sul muro e dall’aspetto piuttosto precario. «Senti, se ti metti sull’ultimo gradino e mi fai il peso è meglio». Accanto a lui c’è uno degli animatori del collettivo licatese, che tiene in mano un’asta attaccata a un’altra asta attaccata a un’altra asta: tenta la missione quasi impossibile di fare i contorni precisi per la scritta «Essere», che sovrasta la maglia e che dà il nome al murales: «Ognuno di noi è qualcosa, ma solo insieme siamo tutto quello che potremmo essere. Una squadra, una città, una famiglia». Perché la famiglia, un po’ come la città e la squadra, uno se la sceglie. E all’arrustuta serale dalla zia Lina e dallo zio Franco, col murales finalmente completo a guardare la strada, la scelta è chiara anche a chi guarda da lontano.

Le videochiamate WhatsApp arrivano in Belgio, ma i racconti parlano di decine di altri posti. Ci sono figlie commosse che osservano tavolate piene e salutano tutti, sedute dentro a una cucina di Charleroi; ci sono generi che vanno via presto perché l’indomani hanno il volo che decolla da Catania alle nove quindi da Licata si deve partire alle cinque; ci sono giovani generazioni che capiscono il dialetto e generazioni ancora più giovani che, invece, a parlarlo hanno qualche difficoltà. «Ho fatto il conto – dice lo zio Franco – Tra due anni sono cinquant’anni di matrimonio». «Quando facciamo cinquant’anni – risponde la zia Lina – Invitiamo tutti quanti, tutti gli amici, facciamo tornare tutti quelli che stanno lontano, la mia figlia dal Belgio, affittiamo la sala, facciamo musica e balliamo. Perché qua, nel cortile, non c’entriamo. Sai quanti saremo?». Il murales e la famiglia della zia Lina, un affresco di quello che il collettivo Niente cambia niente chiama «‘u populu licatisi che sceglie di essere Licata».

Luisa Santangelo

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