«Avrei scommesso che a Librino non mi sarebbe mai successo nulla. Anche se non ci vivo più, quella è casa mia. Ma evidentemente non ci sono più regole». Luciano Bruno nel quartiere ghetto della periferia di Catania, noto per lo spaccio e la forte presenza della mafia, ci è cresciuto, lo conosce bene e non ha mai avuto paura di parlarne e raccontarlo, come ha fatto nel monologo che ha portato in giro per l’Italia quattro anni fa. Ma da ieri ha la consapevolezza che le cose sono cambiate. Sei uomini lo hanno picchiato e minacciato, puntandogli una calibro nove alla testa, per farsi consegnare la macchina fotografica con cui stava raccogliendo scatti del noto Palazzo di cemento e di un cantiere della zona, per un’inchiesta giornalistica a cui sta lavorando.
«Non stavo facendo nulla di strano e non era certo la prima volta che andavo a fare foto a Librino», racconta Bruno. A febbraio scorso, mentre fotografava il teatro Moncada, l’avevano fermato in due. «Quella volta hanno voluto vedere le foto e mi hanno chiesto se per cortesia potevo non farmi vedere per un po’», dice. «Ieri è andata diversamente – racconta – altre persone hanno voluto spaventarmi, con la pistola e facendomi sapere che erano informati sul mio conto e sulla mia famiglia». Non si vergogna a dire che ci sono riusciti: «Mentre avevo la pistola alla testa ho visto mio padre e mio nonno che non ci sono più, mi è passata davanti tutta la mia vita. Me la sono fatta addosso, ma ho avuto paura di morire non tanto per me ma per le persone che amo e mi amano», aggiunge.
Gli hanno rotto un dente, ma non è andato in ospedale, farà solo denuncia alla polizia oggi pomeriggio. «Non sono le ferite il problema. Il dolore per un colpo in faccia lo senti e poi va via, quello che provi per la paura è un’altra cosa», afferma Bruno. Ma ciò che lo ha sorpreso è essere stato aggredito proprio a Librino: «Mi avessero preso a botte fuori dal quartiere sarei stato più contento», dice, paradossalmente. «Quello che mi è successo mi ha richiamato alla mente molto gli anni ’80 e mi fa capire che nel quartiere non ci sono più regole, le cose sono cambiate». Fino a ieri, infatti, Bruno si è sempre mosso nel suo rione con facilità: «Ho perfino portato gli studenti americani per farglielo visitare e non certo per motivi turistici», ricorda.
In queste ore è inevitabile per lui fare ipotesi sul perché dell’aggressione. «Forse nelle mie foto di febbraio ho ripreso qualcosa che non dovevo riprendere, perché da allora sono aumentati i blitz nella zona – dichiara – Forse è perché nel mio monologo ho fatto nomi e cognomi. Magari non c’entra nulla o magari se la sono segnata». O forse è per quello che Luciano Bruno vuole ancora scoprire e raccontare del quartiere. «Ero lì per cercare la verità – dice – ma ancora, nel 2014, chi lo fa rischia la pelle e significa che qualcosa non funziona». Per il giornalista, che collabora con I Siciliani giovani, «le istituzioni sono ancora troppo lontane dai quartieri periferici». «I blitz sono importanti, ma non bastano. Ci vuole anche una presenza costante e diversa», dichiara Bruno, che continuerà a raccontare quella parte della città che considera «casa» sua. «Voglio ancora cercare la verità – assicura – ma rischiare la pelle è un’altra cosa. Non sono Pippo Fava, ma mi dà forza sapere che non sono solo».
[Foto di Leandro Perrotta]
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