«Sono sotto controllo medico, ho perso già molti chili ma mi sento bene. Continuerò finché potrò». È giunto al sesto giorno di sciopero della fame Enrico Colajanni, presidente dell’associazione antiracket Libero Futuro, cancellata cinque mesi fa dall’albo prefettizio. Una decisione, quella di Colajanni, che arriva dopo numerosi appelli caduti nel vuoto. «Non mi restava che un gesto estremo, mi interessa che la gente sappia perché si parla troppo poco di questi argomenti. Non potevo tacere, sarebbe stato come buttare all’aria la nostra onorabilità», dice. L’associazione continua a restare attiva e a fianco dei numerosi imprenditori che accompagna (circa 300 dalla sua fondazione nel 2007) sia nelle denunce che nei processi, circa una decina quelli in corso attualmente. Ma le condizioni non sono certo le migliori e complicano tutto enormemente: «Dopo il depennamento dall’elenco sono iniziati i guai – racconta -. Il Comune ci ha buttato subito fuori dalla sede, che era un bene confiscato, perché non ne eravamo più degni, ci è stato tolto quel minimo di contributo regionale che percepivamo annualmente ed è andata distrutta la nostra credibilità con le forze dell’ordine, che non possono continuare ad avere dei rapporti con noi se nello stesso tempo indagano su di noi – spiega – Fare questo lavoro senza la fiducia da parte loro diventa impossibile».
Gli unici che finora hanno deciso di sostenere Libero Futuro sono stati la parlamentare cinque stelle Piera Aiello e il senatore Mario Michele Giarrusso. Silenzio anche da parte del ministro dell’Interno Matteo Salvini, a cui Colajanni e la rete NoMafie hanno inviato una lettera. «Nella speranza di poterla incontrare per fornirle un quadro completo dell’intera vicenda, le chiediamo che intervenga urgentemente affinché vengano revocate le decisioni adottate dalle prefetture di Palermo e di Trapani ai danni delle nostre associazioni, arginando le conseguenze devastanti che queste decisioni stanno provocando». Decisioni basate per lo più su sospetti, secondo Colajanni, uno fra tutti quello che l’associazione abbia assistito alcuni imprenditori dal curriculum non illibato. Malgrado nessuna delle persone seguite fino ad oggi nelle denunce e nei processi abbia mai subito indagini di alcun tipo o processi. Colajanni però guarda altrove: «Abbiamo alzato il dito e la voce contro certe storture e questo non ci viene perdonato. Veniamo considerati anticostituzionali, ma pensiamo che non si possa fare la lotta alla mafia senza alzare la voce. Questa è la mia interpretazione di questa triste storia».
Storture, quelle a cui allude Colajanni, legate a quelli che definisce i «problemi dell’antimafia», dal sistema Montante a quello, addirittura precedente, del sistema Saguto, in cui si incastra anche la parabola mediatica e giudiziaria del giornalista di Telejato Pino Maniaci. «Cose terribili, ma qualcuno sembra preferire che non se ne parli affatto o, se proprio si deve, il meno possibile. Chi questi fatti li ha denunciati, criticati e contestati aspramente oggi ne vede le conseguenze – ribadisce Colajanni -. Da Maniaci, con le sue denunce sulla sezione Misure di prevenzione diretta all’epoca dalla giudice Saguto, a Giuseppe Caruso, ex responsabile dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, che più volte aveva denunciato le criticità di quello stesso sistema, massacrato dalla Commissione antimafia, che non gli ha mai neppure chiesto scusa». Figure con le quali Libero Futuro ha sempre solidarizzato, abbracciando in passato anche un’altra vicenda che ha innescato un’ulteriore polemica con la prefettura di Palermo: quella riguardante la Sis che stava lavorando al passante ferroviario, azienda anche questa colpita in passato da interdittiva antimafia. «Misura proposta dal colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, finito ai domiciliari nell’ambito del caso Montante, e che intanto con quella decisione ha creato un danno di 800milioni di euro di appalto e un anno di stop all’azienda».
Sulla scia di questo clima, gli imprenditori rimasti legati a Libero Futuro cominciano a demotivarsi, mentre a Bagheria l’associazione ha deciso di sciogliersi definitivamente; continua invece LiberJato di Francesco Billeci, vittima di estorsioni e intimidazioni piuttosto violente, tra cui l’omicidio del suo cane, mentre lui rimane impegnato come parte offesa in due processi penali contro gli aguzzini che ha denunciato. «Un quadro molto bizzarro, insomma», osserva Colajanni. Che punta il dito contro il modo in cui le prefetture utilizzano oggi uno strumento come quello delle interdittive. «Il problema è che la legislazione antimafia è una legislazione d’emergenza e misure prefettizie di questo tipo non possono durare trent’anni – dice -. Anche perché basta il sospetto, non ci vogliono le prove per fermare tutto, ed è grave. Così potrebbe trasformarsi in una scorciatoia contro chi non si può perseguire penalmente».
Sullo sfondo restano le accuse, secondo Colajanni pesanti ed eccessive, rivolte all’associazione. «Oggi ci troviamo accusati in maniera infamante di essere coinvolti in interessi paramafiosi, mentre dall’altro lato le cronache raccontano sempre di più di un alto tasso di criminalità nelle istituzioni. Le quattro associazioni buttate al macero, due l’anno scorso e due quest’anno, dovevano essere considerate un bene prezioso, e invece sono finite uccise sulla base di sospetti». Il problema è in sostanza la legge Rognoni-La Torre? «Io sono cresciuto a casa La Torre, mio fratello era un suo collaboratore, quindi non lo penso affatto – specifica Colajanni -. Chi vuole distruggere questa legge, a parte i mafiosi, sono tutti quelli che la usano male, e se crei tanta impopolarità attorno a questo strumento alla fine verrà qualcuno a dirti di toglierlo di mezzo. La nostra battaglia è perché si sequestri meglio e si gestisca tutto meglio». Dalla prefettura, intanto, che è stata contatta più volte per raccogliere un commento sulla vicenda, tutto tace.
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