Lezione-concerto di Giovanni Sollima

Appena qualche giorno fa, il Centro Zo ha ospitato nel suo Auditorium la lezione-concerto di Giovanni Sollima, violoncellista e compositore. L’evento è stato organizzato dall’Associazione Musicale Etnea e dall’Associazione Siciliana Amici della Musica di Palermo in collaborazione con: la Facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università di Catania, l’Istituto Superiore di Studi Musicale Vincenzo Bellini e il GAI, l’associazione per il circuito dei giovani artisti italiani. La manifestazione è direttamente promossa dall’Assessorato dei Beni Culturali ed Ambientali e della Pubblica Istruzione.

Dopo un’ora di pura estasi in un’alternarsi di musica e domande poste dagli astanti al maestro, ci viene data la possibilità d’intervistare il maestro dietro le quinte. Ecco le nostre domande:

Il  suo è un tentativo di avvicinarsi ad una tradizione culturale molto diversa dalla nostra e che quindi si avvale di strumenti differenti; come è riuscito ad ottenere quegli effetti, quelle suggestioni che le sono propri attraverso il suo strumento?
In realtà tutto questo programma che porto un po’ in giro (che alcuni hanno chiamato “baroque cello” – e lo chiamo anch’io così) lo vado rivedendo ogni volta; in ogni concerto c’è una suite diversa o brani diversi, ad esempio accosto brani miei a brani di Marrero, di Jimi Hendrix, dei Pink Floyd. Tutti con l’arco barocco, anche Jimi Hendrix.

Ho un po’ accostato questi pezzi per un approccio alla composizione da un lato artigianale e dall’altro che scaturisce dal rapporto che si ha con lo strumento, dallo stare lì a studiarlo e ad esplorarlo. Bach, ad esempio, era uno che stava lì a cercare, ad inventare, ad ascoltare, ad aggiungere una corda ad una certa suite. E’ una cosa fatta anche dai violoncellisti del Seicento, Settecento bolognesi. Anche Jimi Hendrix ha creato un suono, uno strumento. Ed il brano che ho appena eseguito “Concerto rotondo”, non è altro che il risultato naturale di questo approccio dell’usare il violoncello come una sorta di strumento sonda, per intercettare forme di vocalità tecniche strumentali. Ho viaggiato in questo senso, poi, sul serio ho viaggiato ed ho stabilito dei contatti. Ho imparato, suono il saranghi, mi interessa giusto per capire qual è lo spazio intermedio tra uno strumento e l’altro, per una storia di uno strumento e l’altro, perché si scrive certa musica perché se ne scrive altra.

C’è della musica che è masturbatoria perché a volte è concepita fuori dal contatto fisico con lo strumento. C’è della musica che vale anche per le stesse ragioni, della musica che sul piano progettuale è fantastica proprio perché ignora qualsiasi rapporto con qualsiasi strumento. Io ho questo modo artigianale, forse anche un po’ selvaggio di scrivere, come si direbbe con la“clava”. Poi utilizzo anche il computer ed un violoncello elettrico.

La scrittura è un segno, un solco. Mi sono ritrovato a scrivere violoncello per cantanti, pezzi per pianoforte, pezzi da orchestra, perché da un lato forse il pianoforte che suona anche, però ero lì schiavo dell’armonia, della verticalità, del vivere un secondo di armonia godendone. Comporre con il violoncello, c’è questa linea temporale, questo diagramma che viaggia nel tempo, lo chiamo melodia o brandello, o qualcosa che comunque viaggia.
E’ uno strumento polifonico virtualmente, Bach ha creato questa polifonia reale e virtuale soprattutto perché tutto ciò che non è scritto è percepibile. Da qualche mese lavoro su tutte le sue suite, le sto riscrivendo. Ho impiegato qualche anno per creare una sorta d’intercapedine per rimuovere quello che ho imparato. Tra l’altro ho trovato a  Berlino un’edizione vecchia delle sei suite con la componente di Schumann al pianoforte. Dovrò registrarne alcune di queste opere nella doppia versione, anche con pianoforte con vibratone romantico. Poi ho preso il manoscritto considerato opera di Magdalena Bach, ed è straordinario con tutti quei ranghi, azzerra qualsiasi edizione.

In “Concerto rotondo” si sentono echi di altri strumenti, non ho mai pensato al contatto esotico con il suono dello strumento perchè quel suono mi affascinava o perché faceva figo il pezzo. A me interessava capire perché con quegli strumenti vengono fuori quei pezzi, perché con altri vengono fuori altri. Allora ho ascoltato, ho imparato delle tecniche, però le ho fatto mie, non m’interessava neanche esserne così cosciente; è una forma d’interiorismo anche in questo caso. 
 
Può parlarci dei rapporti che ha instaurato la sua musica col jazz e col minimalismo?
Questo è segnato soltanto dalla curiosità, dal mio indagare; il minimalismo riguarda un po’ la mia adolescenza, ciò che ho assimilato, anche il jazz ma meno. E poi l’ho vissuto come una forma molto irrigidita nella sua poetica. Allora il minimalismo interessava come alternativa a ciò che le avanguardie proponevano, e poi perché apriva un ponte, un link con le altre culture. In una realtà rappresentata da un’ asse da ..Vienna, Milano avevamo queste diagonali, per molto interessanti. Il minimalismo era, in Occidente, un collegamento l’India, con il centro Africa.., questo mi ha aperto gli occhi su altre realtà, da lì ho incominciato a lavorare sganciandomi anche dalla forma. Philip Glass dice che il minimalismo è nato nel ’64 e finisce nel ’64.Questo è vero, perché lo zoccolo duro, quell’esperienza è durata pochissimo.   

Ci sono dei compositori che lei può in assoluto definire come suoi maestri ,e che, in qualche modo riconosce come sostrato nella sua musica ricca di contaminazioni?
Non lo so se sono solo compositori, questa cosa è un elemento mobile dentro di me, a volte sono compositori, a volte sono scrittori, a volte registi. Quando avevo quindici anni amavo alla follia Bruberg, poi non più. Però è rimasto un segno. Mi piace Cage come filosofo, Greenaway per il suo cinema barocco, Bob Wilson, Danilo Dolci… un sacco di roba, Bach sicuramente, Monteverdi.  

Fino a che punto la sua ”Divina Commedia” può filologicamente allacciarsi al genere del poema sinfonico?
Nessun punto, non c’è nessun contatto col poema sinfonico.


Giovanni Sollima, nasce a Palermo nel 1962 da una famiglia di musicisti. Musicista di larghe vedute e di notevole eclettismo, con un repertorio che spazia dalla musica classica alla musica contemporanea, dal jazz alla popular music. Tra le tante collaborazioni prestigiose spiccano i nomi di Gidon Kremer, Bruno Kanino, Martha Argerich e Jorg Demus.

Alfio Di Stefano

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