L’ex cementificio diventato un rifugio per i senzatetto Lo sgombero di piazza Repubblica visto dai clochard

A guardare negli occhi Chiara e David, 25 anni lei e 23 lui, si percepisce che, oltre a se stessi, nella vita non hanno avuto nessun altro su cui contare. Una storia complicata alle spalle fatta di adozioni in diverse famiglie per David, dissidi familiari e tanto tempo trascorso lontano dai figli per Chiara. E qualche problema con la giustizia. È una delle storie che vedono protagonisti due senzatetto alla ricerca dei mezzi e, forse, anche delle motivazioni per riuscire ad avere una vita migliore. Qualcosa che molti di loro non hanno mai conosciuto. «Siamo in un labirinto da cui non si può uscire», confessa David. 

C’erano anche loro allo sgombero di piazza della Repubblica, quando l’amministrazione comunale si è presentata sul posto avvalendosi dei mezzi della Dusty, la ditta che si occupa del servizio di raccolta dei rifiuti in città. «Perché quello è il centro, dovevamo andarcene da lì», dice David mentre ci racconta la propria versione dei fatti del giorno in cui sono stati costretti a trovare un’altra sistemazione provvisoria. «Eravamo lì, sono venuti e ci hanno tolto tutto – continua – ma già avevamo avuto problemi con i residenti e con i titolari degli esercizi commerciali». In precedenza il complicato rapporto tra chi la zona la abita e chi, invece, non ha altre sistemazioni se non qualche giaciglio provvisorio come i portici di piazza della Repubblica, si sarebbe manifestato anche con l’incendio di un materasso e una secchiata d’acqua ricevuta da Chiara da alcuni residenti della zona. Episodi, questi, che sono finiti nelle aule giudiziarie.   

Quel giorno, costretti a lasciare un riparo, i due hanno deciso di trovarne un altro nell’ex cementificio di via Domenico Tempio e via Santissima Assunta, a pochi metri dal faro di Catania. Una struttura immensa, abbandonata e lasciata al degrado. «La conoscevamo già – dice il giovane -, e poi non ci sono molti altri posti dove dormire». Per questo adesso «riposiamo qui, perché non possiamo dire che dormiamo», commenta Chiara mentre David mostra il giaciglio in cui dormono: una stanza senza porte e finestre in cui hanno creato un letto precario con due cuscini di un divano. Dopo passa alle altre stanze adibite a sistemazioni provvisorie. 

«Qui un amico ci ha messo un lucchetto e si è fatto la sua stanza», spiegano indicando una porta blu con impresso il simbolo della cabina elettrica. Tutt’intorno ci sono pezzi di vetro sparsi sul pavimento, rifiuti. Le pareti sono segnate dal tempo, ammuffite, alcune persino annerite dai diversi incendi che si verificano all’interno della struttura. «Qui dormiamo in sei per adesso, qualcuno viene per fare i murales e poi ci sono alcuni ragazzi del quartiere», raccontano, per poi cambiare repentinamente discorso. «È meglio non approfondire», ammette il giovane. 

Se David sembra sicuro di sé, a sembrare più fragile pare essere Chiara. «In realtà è tutto il contrario – confessa David – ogni giorno è lei a darmi la forza di andare avanti». Proprio Chiara, il giorno dello sgombero, aveva un bambino in grembo. «Mi sento come mi vede: in condizioni pietose», dice la 25enne. «Noi non abbiamo spunti – incalza David -, se io vado in cerca di un lavoro, vestito così, sporco, e dico che vivo in una discarica, chi si prenderebbe la responsabilità di assumermi?». 

Gabriele Patti

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