Lettere di Verga, chiuse le indagini su asta del 2013 Legale degli eredi: «Manoscritti tornino in famiglia»

Non ha ancora il suo epilogo l’affaire manoscritti verghiani. E, nell’intricata vicenda fatta di prestiti di epistole a studiosi del Verismo, vendite alla Regione Siciliana e ritrovamenti che si susseguono aggiungendo nuovi carteggi agli elenchi del fondo verghiano, un’indagine della procura si apre e una, quella del 2013, si è appena chiusa a Roma. Saltata a inizio dicembre l’asta parigina indetta da Christie’s per la cessione della riduzione cinematografica della Cavalleria Rusticana e delle 300 lettere inedite di Giovanni Vergasu intervento del ministero dei Beni culturali, si sono riaccesi adesso i riflettori su un altro filone di documenti contesi: 36 manoscritti ritrovati a Roma nel 2013, appartenenti al cosiddetto fondo Perrone e dal valore stimato di quattro milioni di euro.

Da quasi quattro anni, sono tre le parti pronte a rivendicare la legittima proprietà dei carteggi veristi: gli eredi dello scrittore catanese, la Regione Siciliana e la famiglia Perrone. Anche per questo primo blocco di documenti rinvenuti, tutto ha inizio con un’asta, quella organizzata da Christie’s a Milano nel 2013, che avrebbe dovuto consegnare al migliore offerente quello che rimaneva del fondo Perrone. I documenti furono però sequestrati su disposizione della procura di Roma a una erede ultrasettantenne di Lina e Vito Perrone, gli studiosi di Barcellona Pozzo di Gotto che nel 1928 avevano ricevuto in prestito dagli eredi dello scrittore i manoscritti, per realizzare un’opera omnia, senza mai restituirli alla famiglia Verga, se non in piccola parte.

Ad avere tutto l’interesse ad attivare delle verifiche su quel materiale era, ed è, la Regione Siciliana, che nel 1978 aveva acquistato dal nipote dell’autore catanese, Pietro Verga, per un importo di 85 milioni di lire, l’intero corpus di manoscritti che possedeva, «compreso quello non inventariato», secondo gli studiosi catanesi del fondo verghiano. Dall’altra parte, i figli di Pietro Verga, Pier Francesco e Bernadette Verga, hanno dichiarato, a un mese dalla chiusura dell’indagine romana, di non essere ostili a chi scrive e a chi fa ricerca su Giovanni Verga, ma di esserlo «verso chi, coinvolto per qualche motivo, non si impegna a determinare la verità, chi mette opacità tra i fatti veri e documentati e le indagini». I fatti a cui si riferiscono gli eredi riguardano la cessione, nell’ottobre del 1978 da parte del padre Pietro Verga delle «sole carte in suo possesso» alla Regione Siciliana, «dopo tre giorni di inventario a casa nostra con il soprintendente ai beni librari del Comune di Catania ed un suo funzionario», hanno spiegato i fratelli.

Secondo il loro legale, l’avvocato Sergio Chiarenza, Pietro Verga, nel 1978, fece un elenco analitico dei documenti custoditi e cedette alla Regione Siciliana, per la cifra di 85 milioni di lire, solo il materiale in suo possesso, «lo si legge chiaramente nel contratto – spiega Chiarenza – e non la totalità della produzione verghiana esistente». Per lui, quindi, «non esiste alcun fondo Perrone, si tratta solo di una costruzione data dai giornali». Quelli rinvenuti a Roma nell’appartamento di Angela Perrone, sarebbero documenti ulteriori, «da non confondere – continua il legale – con quelli venduti da Pietro Verga alla Regione», e di cui da anni gli eredi Verga chiedono la restituzione. Il materiale consegnato dalla coppia di studiosi a Pietro Verga sarebbe, secondo il difensore catanese, solo una parte di quello avuto in prestito

«La parte di documenti che mancava è quella ritrovata dalla figlia Angela Perrone, unica indagata dalla procura romana a oggi, che invece di riconsegnare i manoscritti agli eredi – spiega Chiarenza – ha deciso di metterli all’asta, pensando erroneamente di poterne disporre». La magistratura, concluse le indagini, dovrà adesso accertare la legittima proprietà dei documenti. «Questo è il momento delle comunicazioni e delle notifiche – conclude l’avvocato Chiarenza -, a breve si saprà se l’erede Perrone sarà rinviata a giudizio o se il caso verrà archiviato».

Flavia Musumeci

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