L’eredità di Manifesta e il racconto di chi ne ha fatto parte «Spazi come il teatro Garibaldi non resteranno più chiusi»

La legacy, così potrebbe essere chiamata in omaggio al carattere internazionale di Manifesta. Eppure l’eredità della biennale nomade d’arte contemporanea, che quest’anno ha fatto tappa a Palermo e che si concluderà il 4 novembre, è probabilmente la questione più dirimente da affrontare per la città. Un’istanza condivisa a partire da coloro che ne hanno fatto parte. 

«Come curatrice e persona locale – dice Maria Chiara di Trapani, che fa parte del coordinamento curatoriale di Manifesta – la prospettiva della legacy, e di quale eredità avrebbe portato la biennale in città, è stata una delle prime domande che mi sono posta e di cui ho discusso durante il colloquio per Manifesta12 Palermo. Mi piace dire che Manifesta ha agito come biennale invisibile, nella scelta curatoriale delle sedi espositive. È uno degli aspetti positivi di questa edizione: l’aver reso protagonisti luoghi solitamente chiusi e inaccessibili ai visitatori, dove le opere e le installazioni sono state pensate per agire in armonia con questi spazi custodi di tanta storia e bellezza nascosta». Ma dal 5 novembre, cioè quando la biennale chiuderà per trasferirsi a Marsiglia, spazi stupendi come Palazzo Ajutamicristo (che è di proprietà della Regione), Palazzo Costantino e il Teatro Garibaldi torneranno ad essere chiusi e ad accumulare polvere?

«Abbiamo attivato tutta una serie di iniziative culturali – afferma l’assessore alla Cultura Andrea Cusumano – che pongono attenzione su beni che sono privati e pubblici nell’ottica di creare sistema ma anche per poter dare continuità a determinati progetti. Per quanto riguarda gli spazi di pertinenza del Comune, i Cantieri della Zisa continueranno a implementarsi, alcuni progetti di recupero sono al momento in corso. Stessa cosa dicasi per lo Spasimo, dove entro qualche mese consegneremo l’altare del Gagini restaurato, e infine il Teatro Garibaldi, uno dei tre spazi simbolo di Manifesta. Su questi ci impegniamo assolutamente affinché non solo non restino chiusi ma possano essere ulteriormente rilanciati con progettazioni culturali. Per quanto riguarda gli spazi che non sono di competenza comunale mi auguro che serva per poter continuare sulla stessa strada».

Insomma: i luoghi che in primis la stessa popolazione ha scoperto o riscoperto al momento potrebbero restare chiusi. In attesa dei progetti indicati da Cusumano. Non è l’unico rammarico che lascia Manifesta, che forse è stata troppo caricata di aspettative mentre in realtà i suoi scopi erano altri. «Ci si è mossi in punta di piedi – osserva ancora di Trapani – C’è stato un lungo lavoro preparatorio di due anni che ha coinvolto attivamente nella ricerca la città: ascoltando e incontrando le differenti realtà e associazioni attive sul territorio come i singoli. La conoscenza della città è avvenuta attraverso questi incontri. Il 98 per cento dei partecipanti invitati da Manifesta non era mai stato in Sicilia. Inoltre pochi sanno che i progetti educativi con le scuole hanno avuto inizio un anno e mezzo prima dell’inaugurazione di giugno. Più di 30 dei 47 progetti artistici realizzati sono nuove commissioni create per questa edizione e nate dall’interazione con la realtà locale. Si è cercato di attivare progetti che potessero avviare delle eredità, tra questi l’esempio migliore è il giardino dello Zen, espressione di un lungo lavoro collettivo con gli abitanti del quartiere, che verrà inaugurato nei giorni di chiusura della biennale. Manifesta12 Palermo ha agito come un’acceleratrice di energie preesistenti, non si è calata dall’alto, non è stata invadente ma si è mossa con curiosità e umiltà».

Dal punto di vista artistico la sensazione, comune a molti addetti ai lavori, è che Palermo ha dato a Manifesta più di quanto la biennale è riuscita a dare alla città. Nel senso che molti artisti, probabilmente soggiogati dalla storia millenaria del capoluogo siciliano e dalla narrazione presente su accoglienza e cosmopolitismo, hanno di fatto toccato temi già noti. Tra coloro che invece hanno preferito concentrarsi sul proprio messaggio c’è il disegnatore Guglielmo Manenti, che ha dipinto una parete di Palazzo Ajutamicristo focalizzandosi sul movimento No Muos. «La grandezza dell’evento a volte ha creato problemi nelle singole operazioni – confessa Manenti -, nel senso che ciascuno si è dovuto un po’ organizzare da se. Secondo me il rischio per Palermo è che dopo un evento del genere d’arte contemporanea ci possano essere dei momenti di vuoto agghiaccianti. Come se ci si fosse drogati per sei mesi e poi si dovesse affrontare la crisi di astinenza. Si potrebbe passare da un eccesso all’altro, ma questo è in generale ciò che spesso avviene in Sicilia: i grandi eventi qui ci sono, ma poi finiscono e si fa una fatica boia a mantenere quei livelli».

L’opera No Muos ha poi scontato una particolarità: teoricamente la responsabile è l’artista cubana Tania Bruguera (che da sempre collabora con attivisti e popolazioni locali), che però a Palermo non si è mai fatta vedere. A realizzare materialmente l’opera collettiva sono stati infatti gli attivisti No Muos, supportati da una collaboratrice dell’artista cubana. «Un’operazione un po’ da Duchamp, però su un movimento di attivisti – commenta ancora Manenti – Mi sarei aspettato magari che Brugera mettesse qualcos’altro oltre la firma. Ad esempio la regista Laura Potrias, che ha avuto la collaborazione del Centro Sperimentale di Cinematografia sempre sul Muos, è stata più presente, ha rilasciato anche dichiarazioni sul tema. Forse ciò è dovuto al fatto che in fondo i grandi eventi cercano i grandi nomi per attirare le persone».

Per il centro storico, poi, il timore è che Manifesta possa significare soprattutto gentrificazione, vale a dire la possibile trasformazione di un quartiere popolare in una zona abitativa di pregio, che comporta poi la sostituzione dei vecchi residenti – che non possono più permettersi gli affitti diventati troppo cari – con i nuovi facoltosi arrivi. In questi mesi, infatti, sono giunti in città numerosi mecenati italiani e stranieri che hanno adocchiato soprattutto il centro storico. Non è un mistero che su di essi ha puntato l’amministrazione, che in questo modo cerca di ricollocare i tanti immobili ancora abbandonati: si pensi a via Alloro ad esempio, dove recentemente il bando per palazzo Sammartino è andato deserto, col Comune che ha abbassato il prezzo dell’immobile. «In realtà il processo di gentrificazione nel centro storico è cominciato ben prima di Manifesta» osserva Luca Cinquemani, che col collettivo Fare Ala ha realizzato l’installazione Viva Menilicchi al teatro Garibaldi. «A mio modo di vedere il tema è un altro. E ha a che fare col linguaggio. Con Manifesta si è parlato tanto di rigenerazione urbana. Questa espressione vuol dire che si individua qualcosa di pessimo, di nocivo, che necessita di essere riqualificato. Col rischio dunque di applicare un giudizio di valore da colonizzatori su fenomeni esistenti da tempo».

Andrea Turco

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