Per oltre vent’anni quello di Emanuele Scieri sembrava destinato a rimanere un mistero irrisolto dietro un muro di gomma. Adesso è il tribunale ordinario a occuparsi del processo per omicidio volontario del parà siracusano, ucciso il 13 agosto del 1999 nella caserma Gamerra di Pisa e ritrovato, tre giorni dopo, ai piedi di una torretta di asciugamento dei paracadute. A fare riaprire le indagini alla procura era stata la relazione finale della commissione d’inchiesta sulla vicenda. Poco dopo, il tribunale militare di Roma ha chiesto il trasferimento degli atti. Per un periodo, i due procedimenti sono andati avanti parallelamente. A risolvere il conflitto di giurisdizione è stata la prima sezione penale della Corte di Cassazione che ha deciso che il caso è di competenza della sola magistratura ordinaria. Questo perché il nonnismo non è solo un fatto militare, anche se gli atti avvengono all’interno di una caserma. Inoltre, tra gli ex caporali e la vittima non c’era «nessun rapporto gerarchico-disciplinare».
Nel caso del tribunale militare a essere contestato agli indagati era il reato di abuso di autorità, ovvero di violenza contro un inferiore mediante omicidio pluriaggravato in concorso. Nel procedimento ordinario, la contestazione riguarda invece il reato di omicidio aggravato dai futili e abietti motivi. E, oltre ai tre ex caporali Alessandro Panella, Andrea Antico e Luigi Zabara, in questo caso sono indagati per favoreggiamento anche l’ex comandante della Folgore, il generale Enrico Celentano e l’allora aiutante maggiore Salvatore Romondia. Intanto, per oggi è prevista una nuova udienza al tribunale ordinario di Pisa. «Riteniamo che sia la sede più giusta», aveva commentato Francesco Scieri, il fratello del papà. «Così potremo andare avanti senza più perdere tempo, verso la verità», le aveva fatto eco l’avvocata Alessandra Furnari che assiste i familiari.
Nelle motivazioni della sentenza della Cassazione, sulla competenza del caso, la prima sezione penale descrive la pratica del nonnismo come «sopraffazione» all’interno di un gruppo, che prescinde dal rapporto gerarchico militare anche se avviene dentro una caserma. I giudici spiegano che le «disdicevoli ragioni» e gli «atti di sopraffazione non sono in sé ricollegabili al dispiegarsi del rapporto gerarchico, così come al servizio o al rispetto della disciplina militare». Quello che conta è, piuttosto, «l’anzianità» di appartenenza a un gruppo. Nel caso di Scieri, la Cassazione ha valutato, inoltre, che al momento dei fatti descritti dall’accusa gli autori non erano in servizio e non indossavano nemmeno la divisa. Anche Scieri si trovava in libera uscita e, quindi, in abiti civili.
Con «spregiudicata e brutale violenza», gli imputati avrebbero prima «fiaccato la resistenza di Scieri tramite violenti colpi, mentre saliva, in condizioni di insostenibile stress, la scala della torre di asciugamento dei paracadute». Dopo la caduta da un’altezza di circa cinque metri, lo avrebbero lasciato a terra agonizzante «dileguandosi per sfuggire all’individuazione». Secondo una consulenza medico-legale depositata nel giugno del 2020 – dopo nuovi esami autoptici effettuati sulla salma che è stata riesumata – il parà non si sarebbe potuto salvare a causa della «presenza di numerose fratture a più vertebre cervicali che hanno provocato un danno midollare importante con elevatissima probabilità di morte in breve tempo, quantificabile in minuti».
Leggi il dossier di MeridioNews sul caso di Lele Scieri
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