Legami di memoria: accoglienza a 25 anni da stragi Teresi: «Lo ius soli come rimedio contro la mafia»

«La mafia c’è ancora, usa altri mezzi e preferisce la corruzione alla pistola, ma c’è. Ma finora non abbiamo trovato traccia di alcun interessamento criminale fra Cosa nostra siciliana e i trafficanti di uomini». Così il vice procuratore capo Vittorio Teresi, ospite della serata organizzata ieri nell’atrio della biblioteca comunale di Casa Professa, per parlare di diritti e accoglienza a 25 anni dalle stragi del ’92. «Ci sono stati alcuni tentativi di imitazione del metodo mafioso, i cosiddetti black cats, che scimmiottavano le regole amministrative e l’impianto generale di Cosa nostra, ma per fortuna non hanno assorbito la cultura mafiosa – spiega il magistrato – Però erano molto violenti». Il fenomeno viene stroncato sul nascere grazie alla collaborazione spontanea da parte dei migranti vittime di richieste estorsive e vessazioni: «Hanno denunciato – torna a dire – Ed è proprio questo il cambiamento culturale di cui parla Orlando. Ecco perché i migranti portano sicurezza, perché non hanno respirato l’aria di omertà siciliana di duecento anni fa».

Inevitabile il riferimento ai recenti atti vandalici accaduti alla scuola Falcone di via Pensabene, sul quale il magistrato ha alcune certezze: «Sono convinto che nei fatto dello Zen non c’entrino i migranti che abitano nel quartiere – dice – Quello è stato un tentativo volgare di distrarre dall’attenzione di questi giorni la gente che sta insieme per fare memoria. L’arrivo massiccio di nuova cultura e linfa dai paesi dell’Africa ci deve rendere consapevoli del fatto che abbiamo bisogno di loro. È per questo che sento di lanciare uno slogan: lo ius soli anche come rimedio contro la mafia». Chiuso il capitolo accoglienza, però, il magistrato non risparmia una stoccata a un altro recente fatto di cronaca: la decisione della Cassazione di revocare la condanna a dieci anni inflitta a Bruno Contrada, ex numero due del Sisde, accusato di concorso in associazione mafiosa. «Falcone e Borsellino avevano elaborato una teoria sui poteri criminali paralleli, Gaspare Mutolo gli aveva parlato di Contrada come il capofila di un certo potere parallelo che affiancava la mafia – spiega – Lo sgomento mi viene oggi in presenza di una pronuncia prima della Cedu e della Cassazione dopo, che reputo discutibili».

I toni poi prendono una piega amara: «È un legame di memoria preoccupante, questo. È come se ci fossimo stabilizzati perché siamo arrivati a un punto di perfetto equilibrio in cui la mafia è quasi sostenibile, quella cioè che possiamo sopportare, non serve andare oltre – conclude – Se come Stato non esageriamo allora la mafia non ammazza, ed ecco l’equilibrio perfetto. Questa cosa mi preoccupa». Prima di lui, è il sindaco Leoluca Orlando a riflettere sui cambiamenti della città dal ’92. «È una vergogna dopo 25 anni essere arrivato fino al Borsellino quater. È una vergogna che gli organi d’informazione abbiano fatto di tutto per non raccontare l’ignomia del sistema giudiziario durante questi 25 anni e spero di essere querelato per questa affermazione», dice duro Orlando. «Posso dire che Paolo Borsellino era una persona leggera? Sono i valori falsi a essere pesanti. Il suo ricordo e la sua identità ci dicono che anche Palermo può essere leggera. Ma per riuscirci si è dovuta fare una vera e propria lotta di resistenza, che è iniziata prima nei palazzi e solo dopo fra la gente».

Il ’92 è un anno che, inevitabilmente e con dolore, cambia i connotati della città. «Borsellino si è messo contro la nostra identità per rinnovarla, opponendosi a due luoghi comuni tipici: quello che esige sapere a cu appartieni?, e l’altro che dice che chi nasci tunnu un po moriri quadratu, che si oppone al cambiamento – dice – Per cento anni siamo stati dominati dall’Isis siciliana, non si vedevano migranti, perché l’Isis non accetta il diverso. Oggi dobbiamo ringraziare i migranti perché ci stanno aiutando a cambiare identità e a concepire la patria non come uno spazio chiuso. Io sono siciliano perché ho scelto di essere siciliano. Capite quale cambiamento culturale dobbiamo ai migranti? Sono il richiamo al nostro futuro. Io credo che abbiamo un debito verso di loro, hanno consentito a Palermo di esser più avanti del resto d’Italia». Fare memoria oggi è prendere atto di questo cambiamento, senza però abbassare la guardia. «C’è una soglia di sicurezza che è data all’accoglienza. Siamo una città dove i migranti stanno nel centro storico, non vi sembra che sia una cosa straordinaria? Il diritto di decidere dove vivere non può essere contestato da nessuno. Da Palermo il messaggio è quello della centralità della persona umana. E anche Paolo Borsellino era una persona normale, proprio come lo sono loro».

Seduto al suo fianco c’è anche Maurizio Landini, segretario generale Fiom, appassionato come sempre. Il suo intervento è breve ma intensissimo. «Io nel ’92 ero a Reggio Emilio, ero un giovane metalmeccanico. Ricordo quei giorni drammatici, che però hanno innestato elementi positivi e una reposabilità civile senza precedenti. La gente sentiva finalmente il bisogno di fare la propria parte – racconta – E oggi? I soldi possono circolare in lungo e in largo senza barriere, anzi, esistono addirittura i paradisi in terra. Mentre per le persone ci sono i muri e le frontiere. Un arretramento dei diritti senza precedenti, in Italia». Ma da soli, secondo lui, non è possibile portare avanti alcun cambiamento culturale. Il cambiamento deve venire da tutti e soprattutto dalla convinzione che «dovrebbe ruotare tutto attorno alla persona e al lavoro inteso come strumento di realizzazione». La vera lotta alla precarietà è la realizzazione personale, ed è alla luce di questo concetto che, per Landini, i migranti non vengono in Europa per essere assistiti ma proprio per realizzarsi.

A chiudere la serata è Rita Borsellino: «Da 25 anni provo la stessa rabbia: Palermo dov’era? Perché non c’era a dimostrare a Paolo che lo voleva vivo, che continuasse a fare quello che stava facendo? Che nessuno poteva distrarlo, nessuno poteva ometterlo, Palermo forse c’ha pensato troppo tardi. Questa è stata la cosa che mi ha fatto più male e continua a fare più male – dice – Io sono felice e orgogliosa di quello che Palermo ha saputo dimostrare in questi anni. Però mi fa troppo male. Ancora adesso mi fa troppo male. Perché continuo a ripetermi “perché dopo? perché dopo?”, chissà se quello che è accaduto quello sera, qui dove siamo noi oggi, in una biblioteca comunale stracolma, fosse successo prima, se Paolo avesse potuto sentire questa vicinanza della città di Palermo che cercava di trattenerlo, come se abbracciasse e lo tenesse per non farlo andare via, chi lo sa…». L’amarezza, però, non offusca mai la sua tenacia, la sua convinzione che il cambiamento c’è stato ed è ancora in atto e che ignorarlo sarebbe un delitto. «Non è finito nulla col 25esimo, siamo ancora pienamente coinvolti in tutto questo e che nessuno ci dica che ci dobbiamo fermare, perché noi non lo faremo».  

Silvia Buffa

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